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Reportage
07 settembre 2017 - Esteri - Libia - Panorama
Polveriera libica
GHARYAN - “Libertà, libertà” gridano in inglese i dannati rinchiusi nel centro di detenzione di Gharyan, 70 chilometri a sud di Tripoli, costruito dagli italiani al tempo del colonnello Gheddafi. Semi nudi, in un lezzo di carne umana sotto chiave, i migranti economici provenienti dall’Africa occidentale intercettati dai libici infilano le braccia fra le sbarre dell’ingresso dei capannoni-celle gesticolando come ossessi per attrarre l’attenzione. “Vogliamo tornare a casa. Viviamo come bestie in condizioni terribili con cibo scarso e cattivo, pochi vestiti, dormendo per terra” dicono tutti dal minorenne della Costa d’Avorio ai cristiani giunti dalla Nigeria, ai musulmani del Sudan. I capannoni dove sopravvivono da mesi sono divisi in cameroni senza nulla in una cappa di caldo opprimente. Da dietro le sbarre sventolano i fogliettini con i numeri di registrazione delle ambasciate, che li hanno riconosciuti come loro cittadini. Poi la pratica passa all’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), che ha il compito di rimpatriarli. Il problema è che il ritorno a casa è troppo lento ed i numeri ancora limitati. Nel 2017 l’Oim conta su un budget per 10mila rimpatri e ne ha già effettuati più della metà. Nella ventina di centri di detenzione libici, però, si contano ancora 7mila persone. E pochi chilometri a sud attorno alla snodo del traffico di esseri umani di Al Sooerf sono in attesa 16mila immigrati illegali tenuti come animali dai trafficanti, dopo gli accordi con il governo di Tripoli voluti e finanziati dall’Italia. Il presidente francese Emmanuel Macron ha parlato di “800mila migranti ancora nel paese, in gran parte non rifugiati” che rappresentano “una minaccia reale”. Soprattutto se l’imbuto libico non verrà svuotato in fretta con l’aumento veloce dei rimpatri e non sarà ripristinata la sorveglianza sulla frontiera meridionale porta aperta dei migranti che vogliono arrivare in Italia. Una fase due prevista dal ministro dell’Interno Marco Minniti e da Bruxelles dopo la riduzione degli arrivi in agosto di oltre l’80%, ma che deve partire in fretta.  “Non so quante richieste di aiuto abbiamo inviato alla Ue e alle organizzazioni internazionali, ma è arrivato poco o nulla. Il budget a disposizione per i pasti è di 1 dollaro ed un quarto a migrante. Una miseria ed il fornitore non viene pagato da 14 mesi” denuncia senza peli sulla lingua il colonnello Bahlul Shanana, che comanda il centro di Garyan. Dai dossier con le deposizioni dei migranti si scopre che molti bengalesi arrivano comodamente in aereo da Dacca via Dubai, Turchia o Sudan fino all’aeroporto Mittiga di Tripoli grazie a finti contratti di lavoro in Libia. Il costo del viaggio compreso il barcone per l’Italia è di 6000 euro. Nei capannoni-celle di Gharyan i migranti cristiani con l’immagine della Madonna attorno al collo pregano cantando. E ti fanno vedere le bottiglie di plastica tagliate a metà usate come gamelle per immangiabili maccheroni.  Abdoulie Bosang, 20 anni del Gambia, racconta una brutta storia. “Quando ci hanno imbarcato su un gommone a Sabrata uno scafista ha garantito: “Navigate per 3-4 ore e poi una nave delle Ong o militare vi porterà in Italia” spiega il ragazzo con i capelli alla rasta. In mare il motore si è fermato e 146 migranti sono finiti alla deriva. Un testimone sudanese sullo stesso gommone aggiunge: “Li ho visti con i miei occhi. I più deboli, quelli che cominciavano a crollare venivano presi dai nigeriani e gettati fuori bordo ancora vivi. Così alleggerivano il peso sul gommone che stava imbarcando acqua. Pensavo di morire”. La guardia costiera libica alla fine ha riportato indietro solo 43 migranti.  Sabrata era un hub delle partenze verso l’Italia. Lo scorso settembre hanno segnalato in zona Ermias Ghermay trafficante etiope super ricercato nel nostro paese. Da agosto tutto è cambiato con l’accordo fra il grande protettore degli scafisti Ahmed al Dabbashi, soprannominato Al Ammu, lo “zio”, il governo di Tripoli e gli italiani (vedi altro articolo). Le katibe (milizie) Brigata 48 e martire Anas Al-Dabbashi, dedicata al cugino morto nella rivolta contro Gheddafi, hanno ricevuto l’ordine di fermare i barconi. Bashir Lahmoudi, uno dei miliziani in mimetica e kalashnikov al posto di blocco accanto a Mellita, da dove arriva il gas diretto in Sicilia parla chiaro: “Difendiamo l’impianto italiano (dell’Eni ndr). Abbiamo combattuto lo Stato islamico a Sabrata e adesso fermiamo i migranti”. Nelle vicinanze un’ex base della milizia, è stata ristrutturata in tempo di record con alti reticolati per trasformarla in centro di detenzione dei migranti fermati a Sabrata. Una fonte che fa parte del potere locale spiega a Panorama l’accordo: “E’ molto semplice: se le milizie ordinano agli scafisti di non partire loro fermano i gommoni. Se arrivano aiuti e soldi dal governo di Tripoli grazie all’Italia o direttamente dal vostro paese e dall’Europa per i progetti economici l’accordo regge. Altrimenti salta e riprendono le partenze”. Il 19 agosto sulla pagina Facebook della katiba Al Dabbashi è apparso l’annuncio del coordinamento con l’ambasciata a Tripoli della prima di tre consegne di materiale sanitario all’ospedale di Sabrata da parte del nostro governo. Italia ed Europa investiranno 200 milioni di euro in 14 municipalità della Libia, compresa Sabrata, per progetti triennali proposti dai sindaci. La fase uno di tamponamento sul mare e sulla costa del flusso di  migranti non sarà sufficiente se non si interviene nell’entroterra. A Bani Walid, 170 chilometri a sud di Tripoli, sono ammassati in enormi hangar migliaia di persone giunte da Sebha e Kufra i punti d’ingresso nel deserto meridionale. “I camion arrivano e scaricano esseri umani come se fossero merce” racconta una fonte di Panorama. Ed i trafficanti sono sempre più spietati. “Di recente hanno preso nel mucchio due uomini ed una donna, che avevano finito i soldi cospargendoli di benzina per darli fuoco -aggiunge la fonte - Sono morti bruciati vivi, come esempio per gli altri”.  Uno dei progetti della seconda fase, che dovrebbe essere finanziato dall’Europa, è la sorveglianza elettronica dell’inesistente frontiera sud della Libia. Finmeccanica aveva consegnato a Gheddafi nel 2010 un sistema di radar, sensori ad infrarossi e telecamere, di 300 milioni di euro, in parte già pagati, che avrebbe dovuto intercettare il flusso di  migranti dal confine meridionale. Poi tutto è saltato per la rivolta contro il colonnello. Senza il blocco del fronte sud le partenze continueranno, come sta già avvenendo, anche se in maniera limitata. Da Tajura, vicino a Tripoli e Garabulli, 66 chilometri ad est continuano ad imbarcare migranti sui barconi. I prezzi, sempre più scontati della traversata oramai variano da un massimo di 1700 euro ad un minimo di 400.  Nel centro di detenzione di Triq al-Siqqa, il più grande della capitale, simile ad un girone dantesco, sono rinchiusi un migliaio di migranti. Gli ultimi arrivi, a fine agosto, erano stati intercettati dalla guardia costiera al largo della Libia.  Jabel Collins, 28 anni, del Ghana ancora sporco di sabbia e acqua salmastra, accovacciato a terra assieme ad un centinaio di migranti appena arrestati racconta: “I trafficanti all’imbarco avevano assicurato tutti che le navi italiane sarebbero venute a prenderci”.  Gwase, una bella ragazza di 25 anni arrivata dal Gambia, spiega con lo sguardo triste: “Mi hanno detto che in Italia ci sono tanti privilegi per i rifugiati. Ti danno da mangiare, vestiti, protezione. Per questo sono partita”.  Il maggiore Abdulnasser Hazam, responsabile del centro, si scaglia “contro le visite inutili di ministri e diplomatici di tutti i paesi europei compresa l’Italia. Vengono, vedono e promettono mari e monti. Poi non arriva nulla. La Ue ci aiuta per il 10% delle necessità fondamentali”. Alcuni migranti sono in attesa di rimpatrio da un anno e mezzo in un gabbione. E c’è anche il problema dei marocchini: “Ufficiali dell’intelligence dell’ambasciata mi hanno detto che devono fare controlli minuziosi - spiega l’ufficiale del ministero dell’Interno libico - Numerosi loro connazionali combattevano a Sirte con lo Stato islamico e adesso vogliono infiltrarsi in Europa in mezzo ai migranti”. In un solo invivibile stanzone sono ammassati centinaia di persone, che dormono per terra in mezzo ai ratti con un odore soffocante. Mohammed Adam Yakob, 18 anni, sudanese, lancia un messaggio ai giovani come lui: “Voglio tornare a casa per provare a partire di nuovo verso l’Italia, ma non dalla Libia, che è un inferno”.   Fausto Biloslavo
[continua]

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