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Reportage
11 marzo 2015 - Esteri - Albania - Panorama
L’allegra famiglia (italo-albanese) che combatte per il Califfato

Maria Giulia Sergio, la prima jihadista italiana convertita all’Islam con il nome di una delle figlie del profeta, Fatima Az Zahra, è a Raqqa, la «capitale» del Califfato in Siria. Panorama ha ricostruito l’intreccio familiare e la rete che Lady Jihad ha utilizzato per arruolarsi nello Stato islamico, dopo essere partita lo scorso settembre da una frazione di Scansano, in provincia di Grosseto, con Aldo Kobuzi, il marito albanese di 23 anni. 

«Ho sentito mio nipote Aldo un mese fa, via Skype. È andato in Siria con la moglie italiana per raggiungere la sorella. Stanno tutti bene» sostiene Bledi Coku, lo zio che vive a Germenji i Madh, un piccolo centro albanese a sud di Tirana. Barba salafita, lo zio non stringe la mano alle donne e cerca di ridimensionare il ruolo del nipote, che in realtà ha finito l’addestramento con lo Stato islamico e verrà impiegato su uno dei fronti del Califfato in Siria o Iraq. Maria Giulia, 27 anni, non vive da sola a Raqqa, ma assieme alla giovane cognata albanese, Seriola, che ha avuto un figlio piccolo da un mujahed morto lo scorso anno. E si sospetta che con lei ci sia anche la suocera, Donika, la prima a radicalizzarsi della famiglia dopo essere stata abbandonata dal marito emigrato da tempo in Italia. 

Donika ha lavorato pure nel nostro paese, a Scansano, come risulta dai tabulati dell’Inps del 2010, ma poi è sparita. In provincia di Grosseto è rimasto suo fratello, Baki Coku e un’altra parente, che hanno ospitato a più riprese il nipote Aldo e lo scorso settembre la moglie convertita italiana prima della partenza per la Siria. 

«Aldo è mio amico. Un tempo gli piacevano le moto, la birra e il divertimento. Poi ha cominciato a farsi crescere la barba. Sosteneva che se muori con un proiettile in testa combattendo per Allah vai direttamente in paradiso» spiega il giovane Fatjon nel bar di Germenji. Tutti sapevano della moglie italiana convertita all’Islam. L’ultima volta che lo hanno visto era la scorsa estate.

La prima a raggiungere la Siria è stata la sorella Seriola, ancora minorenne, che si è sposata con Mariglen Dervishllari, un albanese di un villaggio vicino a Pogradec partito agli inizi del 2013 per arruolarsi nello Stato islamico. Malato di leucemia, è stato ferito in combattimento. Incredibilmente, è rientrato in Albania per curarsi per poi tornare in Siria dove ha trovato la morte. I biglietti aerei per la Turchia di Dervishllari e altri mujaheddin sono stati pagati dall’imam Bujar Hysa, in carcere dallo scorso marzo assieme a Genci Balla, il capo della rete di reclutamento in Albania. Il primo gennaio 2014 veniva intercettata una telefonata dalla Siria fra Dervishllari e il suo mentore, Hysa. Il combattente jihadista diceva: «Ti sto mandando mio cognato. Gli ho dato il tuo numero di cellulare». Il cognato è Aldo Kobuzi, futuro marito della prima jihadista italiana, che ha adottato il nome islamico Said. 

Panorama ha scovato la sua pagina Facebook con il simbolo nero dello Stato islamico come copertina. L’unica fotografia lo ritrae con il volto coperto da un casco integrale in sella a una moto Honda. Nel 2013 ha pubblicato il fotomontaggio di un miliziano in mimetica, di spalle, con una bandiera nera sullo sfondo e la scritta: «La morte arriva una volta sola. Lascia che avvenga sulla strada di Allah». La svolta estremista è segnata dai video di predicatori radicali, come Saidullah Bajrami e l’imam della grande moschea di Pristina, Shefqet Krasniqi, arrestato più volte negli ultimi mesi e poi rilasciato, ma sempre sotto inchiesta per i sermoni che inneggiano alla Guerra santa. Guarda caso, Krasniqi è stato ospite nel 2013 della moschea di Grosseto, a una ventina di chilometri da dove viveva Kobuzi e dove sarebbe poi arrivata Maria Giulia, trasformata in Fatima.

«Aldo lavorava da noi come meccanico. A un certo punto non mangiava più la pizza per timore che ci fosse del prosciutto, proibito dall’Islam. E ha rifiutato anche delle uova di Pasqua, che volevamo regalargli» racconta il suo ex datore di lavoro in Albania. Per Maria Giulia (nata a Napoli e trasferita in provincia di Milano) la deriva radicale, dopo la conversione, avviene qualche anno fa in Slovenia. Lei stessa racconta a un giornale italiano, nell’ottobre 2013, in tempi non sospetti, che il passaggio al niqab, il velo integrale, comincia con un viaggio nella più occidentale delle ex repubbliche jugoslave dove incontra le «munakabattan», ragazze islamiche che si coprono tutto il corpo in nome di Allah.

Lo scorso settembre è trapelato che la Sova, i servizi segreti sloveni, hanno individuato nel 2012 due associazioni radicali a Lubiana, la El Imam e l’Ensarud-Din. La prima organizzava ogni domenica incontri per le donne islamiche. La El Imam era vicina al predicatore sloveno Alim Hasanagic, amico di Sead Bajraktar, l’imam del centro islamico kosovaro in provincia di Siena «attenzionato» dalla nostra intelligence. A Lubiana, nel 2011, aveva predicato Husein Bosnic, detto Bilal, sotto processo a Sarajevo per l’adesione allo Stato islamico e il reclutamento di combattenti da mandare in Siria anche dall’Italia.

Lo scorso anno, quando Aldo e Maria Giulia si erano sposati, avevano già maturato la scelta estrema di partire. L’imam che aveva aperto la strada era in galera a Tirana, ma grazie ai familiari albanesi già in Siria la coppia partì lo stesso per la guerra santa. 

L’ultimo post su Facebook di Aldo è del 4 settembre. Poi avrebbero preso a Roma un volo per Istanbul, dove i volontari attendono un paio di giorni prima di proseguire in autobus verso Hatay. Infine il villaggio di Rejhanli, punto d’ingresso sul confine siriano. Questo tragitto in Turchia è stato seguito dai 90 jihadisti albanesi partiti per il Califfato, comprese 13 donne con 31 bambini, come la cognata di Maria Giulia. E la filiera, che coinvolge anche l’Italia, potrebbe non essersi interrotta. Il 30 gennaio trapela la notizia che una donna di origini albanesi, ma residente da tempo nella provincia di Lecco, ha abbandonato la famiglia portandosi via il figlio di 6 anni. Secondo il marito, che ha presentato denuncia ai carabinieri, la consorte è partita per la Siria.

Non a caso il 14 gennaio, il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, è volato a Tirana, pochi giorni dopo il massacro del giornale satirico  Charlie Hebdo. Nell’incontro con il suo omologo albanese, Saimir Tahiri, viene decisa la nascita di squadre congiunte di polizia per contrastare il terrorismo. Alfano non ha dubbi: «I Balcani occidentali sono un’area considerata dai terroristi una zona importantissima di attraversamento per recarsi nei teatri di guerra». 

Lo scorso autunno la filiera albanese per la Siria sarebbe stata utilizzata pure da un marocchino proveniente dall’Italia, che ha preso un volo Roma-Tirana. L’antiterrorismo lo segnala alle autorità albanesi, ma all’aeroporto della capitale Madre Teresa non risulta sia sbarcato un passeggero con lo stesso nome. Probabilmente aveva a disposizione documenti falsi ed è riuscito a far perdere le tracce. Secondo Alfano, i Balcani (da dove sono partiti  500 dei 3000 mujaheddin europei) sono «un’area nella quale si può immaginare che possano formarsi e addestrarsi terroristi che vanno poi a combattere in Siria».   

Nella relazione annuale al Parlamento, il 27 febbraio i servizi segreti non hanno escluso il rischio di attentati anche in Italia. Per mano di «varie categorie» di terroristi: dai veterani di ritorno dalla Siria alle cellule dormienti, dai lupi solitari ai «familiari/amici di combattenti (donne incluse) attratti dall’“eroismo” dei propri cari, specie se martiri». I familiari, appunto...

[continua]