LIBRO E MOSTRA Gli occhi
della guerra
Gli occhi della guerra incrociati in tanti reportage in prima linea. Per questo gli occhi della guerra diventano il titolo di un libro fotografico. Un libro per raccontare, con immagini e sguardi fugaci, 25 anni di servizi dai fronti più caldi del mondo.
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REPORTAGE
Nel Mar Rosso
per difendere
i mercantili
MAR ROSSO - Il rendezvous è fissato alle 2 Zulu in una notte di mezza luna nel Mar Rosso. Il cacciatorpediniere, Caio Duilio, naviga a tutta velocità verso nord. L’obiettivo è garantire la protezione ravvicinata a un convoglio di tre navi mercantili lungo la “zona rossa”, ad alto rischio, per la minaccia di droni e missili che gli Houti lanciano dallo Yemen. Fino ad oggi i miliziani filo iraniani, in guerra con Israele per l’invasione di Gaza, hanno attaccato 73 mercantili.
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imageImmigrazione S.p.A.

autore: Fausto Biloslavo e altri
editore: Il Giornale
anno: 2015
pagine: 120
Sicilia confine d’Europa Fausto Biloslavo e Valentina Raffa Sbarchi e ancora sbarchi. È una marea umana quella che si sta riversando sulle nostre coste. Uno tsunami che ha investito l’Italia, ma la sua furia anziché scemare sembra acquistare vigore, alimentata da un lato dalla cieca, insensata e monotematica politica dell’accoglienza a tutti i costi e, dall’altro, dal business della tratta di esseri umani. Il fronte siciliano, confine d’Europa, è il più esposto del nostro paese. Dal primo gennaio 2014 al 20 giugno di quest’anno sbarcano in Sicilia, in gran parte soccorsi dalle navi della Marina militare, 142.942 migranti. I dati sono quelli ufficiali del Servizio immigrazione e della polizia delle frontiere. Nel 2014 a Siracusa sbarcano in 44.275, un primato sul territorio nazionale. Altri 10.001 vengono registrati dall’inizio dell’anno. A Lampedusa arrivano in 13.904 negli ultimi 18 mesi. Il porto di Pozzallo (Ragusa) registra 26.363 persone nel 2014 e 6.311 fino a giugno. In prima linea sul fronte dell’immigrazione via mare risultano pure Catania, Messina e Trapani. Ben 6 su 10 degli approdati in Europa non vengono trattenuti e respinti se clandestini, secondo dati che circolano a Bruxelles. In Sicilia e Calabria la percentuale si innalza: il 70% degli sbarcati la fa franca. LADY SOS Nel marasma dell’immigrazione non mancano personaggi, che diventano dei simboli buonisti e nessuno osa mettere in discussione la loro spinta solidale, che magari nasconde interessi politici o altro. Da Catania è diventata una star dell’accoglienza Nawal Soufi, soprannominata l’angelo dei siriani o, ancora meglio, Lady Sos. Le edizioni Paoline le hanno dedicato addirittura un libro, che già dal titolo non lascia dubbi: “Nawal, l’angelo dei profughi”. Ventisette anni, di origine marocchina, Lady Sos, sembra vivere con il cellulare all’orecchio. Ufficialmente grazie al passa parola riceve le chiamate di emergenza dai barconi in viaggio nel Mediterraneo verso l’Italia e passa le coordinate alle Capitanerie che lanciano i soccorsi. In pratica favorisce l’arrivo della merce umana e nessuno sembra chiedersi se esistono altri motivi oltre alla solidarietà. A bordo dei barconi non ci sono solo i siriani in fuga dalla guerra, che hanno diritto all’asilo, ma pure i clandestini. E fra gli stessi profughi siriani non tutti sono immacolati. Nawal ammette candidamente, che il suo ruolo non si limita a quello di Lady Sos. “È iniziato tutto attraverso il passaparola su Facebook – racconta la giovane – dove è stato scritto il mio numero di telefono. Mi chiamano perché la guardia costiera non ha un interprete di lingua araba. Io rispondo alle chiamate di Sos dal mare e da terra e faccio un servizio di seconda accoglienza per chi continua il viaggio verso il Nord Europa”. In pratica aiuta i migranti a proseguire, dopo essere sbarcati in Italia. La spinta potrebbe non essere solo umanitaria. Lady Sos è un’attivista, che appoggia i ribelli contro il regime di Damasco. La pasionaria partecipa alle stesse manifestazioni dove viene fotografato Haisam Sakhanh, nome di battaglia Abu Omar, che da Cologno Monzese va a combattere in Siria. E sul campo si fa riprendere in un video di brutale esecuzione di soldati governativi prigionieri dei ribelli. Vanessa Marzullo, una delle due vispe Terese molto vicine alla resistenza siriana, prese in ostaggio in Siria lo scorso anno e poi liberate grazie al pagamento di un lauto riscatto ha contatti con Soufi ben prima del sequestro. Al fianco di Lady Sos si fa immortalare in una manifestazione a favore della ribellione armata infiltrata dal tagliagole Sakhanh. Il 3 giugno 2014 Vanessa lancia sulla sua pagina Facebook un appello “urgente” salva clandestini di Nawal Syriahorra, che chiede a “siriani/arabofoni di contattare” un telefono satellitare “presente sull'imbarcazione di cui ha parlato in questi giorni, con almeno 450 persone a bordo abbandonate al mare. Chiamare sperando che qualcuno risponda e chiedere: sono tutti vivi? c'è gente in acqua? la donna ha partorito? sono stati raggiunti da italiani o maltesi? Al più presto!”. Nawal è Lady Sos, attivista della fallita primavera araba di Damasco, che favorisce l’arrivo d ei profughi in Italia. Non a caso Vanessa, sempre su Facebook, posta una frase in italiano non perfetto scritta su un muro e firmata da Lady Sos: “Qui in Siria unico terrorista Bashar el Assad 15/3/2013 Mc- Italy ”. LA RETE MILIONARIA DEI TRAFFICANTI Se Lady Sos raccoglie le richieste di aiuto dai barconi per inviare i soccorsi, c’è chi lucra su questo andazzo inaugurato con l’operazione Mare Nostrum, che andava a prendersi i migranti in mezzo al mare. Il 20 aprile l’operazione di polizia Glauco II, con 24 mandati di cattura della Direzione distrettuale antimafia di Palermo, porta alla luce gli affari milionari di una delle reti dei trafficanti annidati in Libia. I punti di imbarco sono attorno a Zuwara, storico hub della tratta. “Le partenze (…) avvengono con una frequenza quasi giornaliera, soprattutto nei mesi primaverili, estivi ed autunnali, - si legge nell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal procuratore della repubblica aggiunto Maurizio Scalia - in base alle condizioni di navigabilità del mare e, facendo affidamento sui dispositivi di soccorso “Mare Nostrum” prima , e “Triton” poi, i migranti vengono imbarcati su natanti sempre più fatiscenti e abbandonati sovente alla deriva appena lasciate le acque territoriali libiche, lanciando contestualmente solo una richiesta di soccorso”. Questa banda avrebbe generato un volume di affari di 35.600.000 dollari per far arrivare 5.478 profughi e clandestini in Sicilia. Il calcolo si basa sul costo medio di 6.500 dollari a testa per l’intero viaggio attraverso il Sudan fino alle coste libiche, lo sbarco in Italia ed il proseguimento verso le destinazioni finali. Il business non si esaurisce con la partenza dalla Libia. La costola italiana della rete, si fa pagare dai 500 ai 1500 euro a testa per organizzare la «fuga» dei migranti dai centri di accoglienza e farli raggiungere clandestinamente Roma, Milano o altri paesi europei come Norvegia, Svizzera, Francia, Inghilterra o Germania. Le squadre mobili di Palermo ed Agrigento coordinate dal Servizio centrale operativo della polizia di stato individuano con Glauco II, i boss della tratta sull'altra sponda del Mediterraneo: l’etiope Ermias Ghermay e l’eritreo Redae Medhane Yehdego. Ed il resto della rete nel nostro paese gestita dall’eritreo, Asghedom Ghermay, 40 anni, arrestato assieme ad altri 17 complici. Ermias, ancora ricercato, secondo l’identikit tracciato in base alle testimonianze dei migranti, ha una faccina rotondetta, da bravo ragazzo con i capelli corti, neri e un po’ ricci. Grazie alle intercettazioni si scopre che in Libia i boss intascano circa 80mila dollari a carretta del mare zeppa di disperati diretta verso le nostre coste. L’accusa è di aver organizzato una quindicina di viaggi. Almeno quelli accertati, probabilmente una minima parte dell’attività globale dei moderni schiavisti. Se moltiplichiamo 80mila per 15 scopriamo che il guadagno è di 1.200.000 dollari. Non a caso Yehdego, parlando al telefono, rivela che in Eritrea sta comprando una casa che vale 13 milioni di dollari. E divide la torta con alcuni politici di Asmara, che sarebbero coinvolti nel traffico di esseri umani. Il vero boss in Libia, Ghermay, sostiene candidamente che potrebbe vivere da nababbo per 20 anni con i soldi incassati sulla pelle dei migranti. Non solo: il grosso del malloppo viene depositato in Svizzera, Israele o Dubai e gestito dalla moglie, che si muoverebbe con disinvoltura fra Stoccolma e Francoforte. Ghermay “compra” interi “pacchetti” di profughi e clandestini fin dalla tappa iniziale in Sudan. E le tariffe per migrante sono precise: 5000 dollari dall'Africa orientale, via Sudan, per raggiungere la Libia. Altri 1000-1500 per la traversata del Mediterraneo con l'assicurazione che la navi italiane soccorrono i barconi. Ed infine da 500 ai 1500 dollari per dileguarsi dai centri di accoglienza in Sicilia e raggiungere la destinazione finale in Italia o Europa. Per sbarcare da noi ogni migrante paga 6000-6500 dollari. Se li moltiplichiamo per i 170mila arrivati nel 2014 il giro d’affari totale stimato della tratta verso l’Italia è di oltre 1 miliardo. In aprile, Asghedom, soprannominato «Amice», il capo cellula in Sicilia, viene ammanettato ad Agrigento. Nel giugno del 2013 era arrivato al Centro di accoglienza per richiedenti asilo di Mineo in provincia di Catania, dopo essere sbarcato da un barcone a Lampedusa. Il sospetto trafficante si spaccia per rifugiato raccontando una storiella di persecuzione e ottiene il permesso di soggiorno fino al 2019. In realtà, grazie ai documenti, che gli permettono di restare in Italia, comincia a gestire la tratta degli esseri umani dalla Sicilia alle altre città italiane e mezza Europa. Ermias Ghermay dalla Libia gli garantisce che fornirà il suo numero di cellulare “a quelli che farà partire (…) visto che anche gli altri organizzatori danno a tutti quelli che imbarcano i contatti di persone in Italia che poi si occupano di loro”. Amice crea una rete che va a “pescare”i migranti talvolta allo sbarco, in posti come Favara, ma soprattutto nei due centri di accoglienza siciliani a Mineo e Villa Sikania a Siculiana. Nei centri vengono assoldate delle “sentinelle”, fra gli stessi ospiti, che in cambio di soldi agganciano chi vuole dileguarsi e raggiungere un’altra destinazione. Spesso i migranti giunti dalla Libia hanno già il numero di cellulare degli uomini della rete sull’isola. Una volta agganciati vengono portati in appartamenti della zona, dove vivono come bestie, anche 117 in una sola casa, costretti a dormire in piedi. Dalle intercettazioni si scopre che i trasferimenti dai centri agli appartamenti sicuri avvengono con 3-4 viaggi in macchina al giorno. L'autista principale è Nahome Gutama Kerebel fermato il 21 aprile, che si sposta in tutta la Sicilia per raccogliere i migranti con la sua automobile Multipla. L’eritreo di 31 anni riscuote i pagamenti per conto di Amice e talvolta lo accompagna ad incontrare i “clienti” sbarcati da poco. L’autista acquista i biglietti del pullman verso Roma o Milano o altre mete scelte dai migranti rincarando il prezzo per intascarsi la differenza. Kerebel utilizza per i versamenti una carta Postepay. Secondo le intercettazioni il tariffario per ogni clandestino, che non vuole restare in Sicilia, prevede 500 euro per raggiungere la Germania, 1100 o più per la Svezia, Svizzera, Inghilterra e Olanda. I viaggi per Roma costano appena 150 euro ed un terzo finisce nelle tasche del boss. Non si muove nulla fino al versamento dei soldi pattuiti, che vengono pagati dalle famiglie di origine o dai parenti in Italia o in Europa. Il sistema utilizzato dai trafficanti in Libia è l'hawala, che permette di versare il denaro in Somalia e ritirarlo in Europa o a Dubai. Ogni pagamento ha un codice, che serve per incassare i contanti senza troppe formalità. Oltre all’hawala vengono utilizzate, soprattutto in Italia, le reti più convenzionali come Western Union, Moneygram e non solo. “Per le transazioni di denaro sul territorio nazionale - riportano gli atti - un metodo molto usato dai trafficanti è risultato la ricarica tramite carte Postepay”. Una volta arrivati i soldi Amice ed i suoi smistano profughi o clandestini facendoli partire in pulmino, auto o treno, “40 per Roma e 11 per Milano”, come ammette il capo in un’intercettazione. Habtom Teklehaimanot è un membro della “cellula” italiana, che vive a Catania e secondo gli atti “svolge un fondamentale ruolo di “cassiere” per l’associazione. A partire da gennaio 2014 fino al mese di ottobre dello stesso anno, l’indagato (…) ha ricevuto sulla sua carta Postepay (con 50 diversi versamenti, provenienti dalle principali province italiane (tra cui Agrigento, Bari, Catania, Milano, Prato, Roma, Milano), la somma di 17.392 €, costituita da vari importi, mediamente tra i 100 e i 1000 €”. Ibrahim Diallo, un trentenne della Guinea, che frequenta il bar “Alì Baba”, noto punto di ritrovo di stranieri a Catania è un altro autista e cassiere della rete italiana dei trafficanti di uomini. Attraverso Money Transfer movimenta i pagamenti da varie parti d’Italia per un totale di 58.739 €. Gli investigatori accertano centinaia di piccoli versamenti per un totale di 136.509, 71 € su carte Postepay ed il sistema Money Transfer intestati ai membri della rete. Soldi versati per spostare i clandestini solo per la tratta dopo lo sbarco, in partenza dalla Sicilia. Il 29 aprile si costituiscono due ricercati dell’operazione Glauco II. Uno di questi, Mudeser Omer Mahamed è un esponente di rilievo della cosiddetta “cerchia milanese”. Eritreo di soli 19 anni organizza la tappa nel capoluogo lombardo per gli stranieri arrivati dalla Libia. Di solito Mahamed “riceve” i migranti alla Stazione centrale di Milano o nei pressi di fermate concordate della metropolitana. Si occupa anche del vitto e dell’alloggio, in attesa di farli partire per la destinazione finale, sempre dietro compenso. A seconda delle possibilità economiche dei clandestini e della loro meta sceglie il mezzo più opportuno per proseguire il viaggio, treno oppure automobile. Anche per il semplice acquisto del biglietto ferroviario ricava un guadagno grazie al sovrapprezzo per il disturbo. Fra i costi dei trafficanti di uomini c’è anche la corruzione, a monte, dei libici. I boss a Tripoli vengono intercettati mentre parlano di un pagamento, probabilmente in dinari libici, o dollari, che corrisponde all’equivalente di 2.800 euro per far rilasciare da prigione due donne ed imbarcarle verso l’Italia. Il 13 agosto, ma la notizia trapela un mese dopo, viene arrestato a Worms, in Germania, l’eritreo di 41 anni Mulubrahan Gurum. La procura di Palermo lo accusa di essere il cassiere chiave del ricercato Medhanie Yehdego Mered, uno dei quattro signori del traffico dei barconi che partono dalla Libia assieme ad Abdul Razak, Ermias Ghermay, Wedi Issack. Guru si è dileguato dal centro di accoglienza siciliano di Mineo, dove aveva la residenza. In Germania, grazie al mandato di cattura europeo, lo beccano in un albergo che ospita i richiedenti asilo. Nuredin Atta, il primo pentito della rete Libia-Italia, conferma agli inquirenti: “I soldi dei trafficanti di Tripoli non sono in Libia, ma in Germania”. E non solo: altri cassieri vivono a Tel Aviv, dove arrivano i soldi dei Falasha, gli etiopi con origini ebraiche, che attraversano il Mediterraneo. CHI PAGA Chi paga gli illusori viaggi della speranza con l’obiettivo di sbarcare in Sicilia? I soldi arrivano anche dagli Stati Uniti, da parenti e amici che vivono in Europa, in Italia e finanziano le tappe del viaggio dei migranti verso un Eldorado occidentale che non c'è più. Chi si imbarca nell'avventura tira fuori dai 6mila a 10mila dollari a testa per arrivare fino alle nostre coste dall'Africa nera o dal Medio Oriente. Un gruzzolo non indifferente per profughi che fuggono dalla guerra o dalla povertà. Soldi che fruttano profitti miliardari ai trafficanti e «spesso finanziano il terrorismo» secondo la coordinatrice anti-tratta Ue, Myria Vassiliadou. Nei dintorni di Sabratah, uno dei porti di partenza della Tripolitania, operano i terroristi di Ansar al Sharia coinvolti nelle recenti stragi in Tunisia. I killer della spiaggia di Sousse e del museo il Bardo di Tunisi, dove sono morti 4 italiani, sarebbero stati addestrati in un campo di Ansar proprio nell’area di Sabratah. I terroristi riscuotono il “pizzo” dai trafficanti, che si aggirerebbe sul 10% del giro d’affari, come fanno i talebani in Afghanistan con l’oppio. I versamenti per le tappe del viaggio, sempre in anticipo, avvengono attraverso l’hawala, le reti di pagamento sulla fiducia. Lo stesso sistema utilizzato dai pirati somali per riciclare il denaro sporco dei riscatti. Secondo le intercettazioni dell’inchiesta le tratte del viaggio vengono finanziate addirittura dagli Usa. Ghermay il boss del traffico in Libia riceve una telefonata da Gerensea un etiope, che vive negli Stati Uniti «per chiedere di un ragazzo, Efram Melake, che si dovrebbe trovare con loro in Libia, per cui ha inviato in Sudan la somma di 2300 dollari, 1800 per la traversata del mare e 500 per l'alloggio». Il ragazzo che deve imbarcarsi verso l'Italia è il nipote di Gerensea. La prima parte terrestre del viaggio per raggiungere dall'Africa orientale la Libia, via Sudan, è la più costosa e può arrivare a 5mila dollari. L'esborso è solitamente coperto dalle famiglie di origine o da quelle in Europa. L'aspetto più incredibile è che i versamenti per finanziare le tappe vengono minuziosamente registrati dai moderni schiavisti con dei codici del sistema hawala per ritirare i soldi. Nelle intercettazioni i trafficanti parlano della contabilità del denaro versato dai parenti per i migranti indicando il codice «40 Berhe Kiflu» seguito dalla cifra 600, probabilmente i dollari inviati, oppure «8 Sham Bereket 1850» e così via. Il costo del viaggio e relativo finanziamento varia notevolmente a seconda della meta finale, il numero di soste, il vitto, l'alloggio ed in alcuni casi l'acquisto di vestiti o telefoni cellulari. I trafficanti si occupano anche di comprare il biglietto del treno, pullman ed accompagnare i clandestini in stazione, una volta che parenti o amici fanno pervenire il dovuto. Per arrivare dalla Sicilia a Milano o Roma il costo è di 150-200 euro. Per altre destinazioni come l'Inghilterra, l'Olanda o il Nord Europa i finanziatori devono versare fino a 1100-1500 euro. Molti migranti, soprattutto africani ed egiziani, finiscono ben presto le risorse. In Libia vengono impiegati come schiavi, compresi i bambini, in lavori di fatica. Se non basta li frustano facendo sentire le urla ai parenti via cellulare per spillare il denaro. E le ragazze sono spesso violentate per ottenere il pagamento della tratta. YACHT E GOMMONI Il costo del viaggio dalla Libia, dall’Egitto, più raramente dalla Tunisia e dalla Turchia per sbarcare a Lampedusa, in Sicilia o farsi soccorrere in alto mare varia a seconda della tipologia di natante che viene utilizzato. E non è l’unica discriminante a determinare il prezzo del “biglietto”. Molto dipende dalla provenienza dei passeggeri. Quelli dalla pelle più scura, che arrivano dall’Africa subshariana – sia per le loro origini che per le tasche vuote – sono tenuti in scarsa considerazione. I “neri” salgono per primi nei pescherecci e finiscono stipati sul fondo, in genere schiacciati come sardine dentro le stive o ghiacciaie. Nel luglio 2014 crepano in 45 asfissiati nella stiva di un peschereccio fatiscente respirando le esalazioni del motore. Se viaggiare su un gommone costa 500-600 euro a passeggero, farlo su natanti di un certo tipo, come potrebbe essere un’imbarcazione in legno ormai obsoleta, ma un tempo di lusso, ha prezzi elevati. I benestanti sono in genere siriani, che fuggono dalla guerra. In diversi viaggi i migranti più facoltosi acquistano il giubbotto di salvataggio considerato un optional. Il costo è di 500 dollari. I passeggeri clandestini di due barche salpate nel luglio del 2014, una dalle coste turche e l’altra da quelle egiziane, pagano chi 5.500 e chi 6mila dollari per arrivare in Italia. Viaggi che fruttano agli organizzatori circa 3 milioni di dollari. Traversate di “lusso”, visto che vengono persino distribuiti dei viveri: formaggini, datteri e pane. Il costo del biglietto per la “prima classe” su uno yacht, anche se datato, è di 8.500 dollari. La cifra viene sborsata in aprile da 98 immigrati siriani e palestinesi, che scattano dei selfie per immortalare la traversata organizzata da una consorteria criminale con lo stile dell’agenzia di viaggio. L’offerta per sbarcare in Italia prevede tanto di sconto per i bambini, 23 in tutto, per un incasso complessivo di circa 800mila dollari. “Pagate tanto e avrete ogni comfort su uno yacht” è lo slogan, propagandato anche via Facebook, che attira i passeggeri facoltosi. A bordo ci sono viveri preconfezionati in abbondanza e acqua, custoditi in una dispensa accessibile a tutti. L’equipaggio è di grande esperienza. Peccato che lo yacht di 25 metri subisce un’avaria ai motori al largo delle nostre coste e lancia l’Sos. Tutti i passeggeri vengono sbarcati nel porto di Pozzallo e gli scafisti arrestati. Sulle imbarcazioni veloci, piccole, nuove e sicure, utilizzate per trasportare pochi passeggeri benestanti, si paga 5mila euro e anche più. Il viaggio è garantito e lo sbarco avviene su spiaggette soprattutto calabresi o pugliesi talvolta frequentate da turisti, da dove i passeggeri possono dileguarsi a piedi eludendo i controlli. La Sicilia, invece, è l’obiettivo di gommoni e barconi fatiscenti carichi di disperati. Il prezzo del viaggio low cost varia dai 1.000 ai 2.000 euro, a seconda dei posti occupati sul natante e scende a 500 euro sui gommoni. Le imbarcazioni capaci di stare a galla sono preziose per i trafficanti di vite umane e vanno utilizzate il più possibile. Per questo motivo, specie quelle in buone condizioni, devono essere recuperate. A tutti i costi. Il 14 aprile, in alto mare, una presunta motovedetta libica spara in acque internazionali per riprendersi un barcone zeppo di migranti soccorsi da una motonave italiano. L'armatore, Mario Mattioli, del rimorchiatore d’altura coinvolto Asso 21, conferma: «Hanno preso il barcone perché gli serviva per un altro viaggio. Basta riempirlo di nuovo di immigrati e vale un milione di euro». La nostra Marina militare fa decollare un elicottero che individua la motovedetta. A bordo i quattro ceffi armati di kalashnikov sostengono via radio: «Siamo della guardia costiera libica». Invece che sparare a prua per fermarli o affondarli li abbiamo lasciati andare. Le norme internazionali non permettono di far fuoco ad una motovedetta “governativa”, che si presenta come tale. Peccato che i libici a bordo, collusi o loro stessi scafisti, anche se facessero parte della guardia costiera sono partiti dalla Tripolitania controllata da un governo che l'Italia e la comunità internazionale non riconosce. Per di più i 250 migranti tratti in salvo e poi trasferiti in Sicilia si erano imbarcati a Sabrata, uno dei porti dove il traffico di uomini è controllato dai terroristi di Ansar al Sharia. Il vergognoso episodio avviene a 60 miglia dalla costa libica. Il rimorchiatore Asso 21, che lavora per le piattaforme dove opera l'Eni, soccorre una tinozza di migranti: «Quando stavamo per ultimare il trasbordo e sul barcone erano rimasti ancora una trentina di persone sono arrivati su una motovedetta i miliziani libici, che hanno cominciato a sparare in aria» raccontano i sopravvissuti sbarcati il 15 aprile a Catania, dove la procura apre un'inchiesta. «Due di noi sono finiti in mare, ma sono stati subito recuperati prima di annegare» aggiungono i testimoni oculari. Una fotografia scattata da Asso 21 mostra la piccola motovedetta di tipo militare e colore grigio affiancata al rimorchiatore. L’unità navale potrebbe essere di fabbricazione italiana, francese o russa regalata alla Libia ai tempi di Gheddafi. Si nota un lampeggiante blu bianco e rosso, ma nessuna bandiera o uniforme. I quattro a bordo indossano una cerata gialla ed almeno uno ha un kalashnikov. Nell'immagine spunta la prua del barcone azzurro, che i libici vogliono portarsi via per riutilizzarlo. «Non sono in grado di dire se fossero veramente della guardia costiera o meno - spiega l'armatore di Asso 21 - Ma hanno sparato in aria per far muovere più in fretta la trentina di migranti ancora a bordo del barcone e portarselo via». La motovedetta rimorchia il barcone vuoto tornando verso la Libia. A circa un miglio c'è l'unità navale islandese, Tyr, schierata da Frontex. L'agenzia europea per i controlli dei confini conferma: «È la seconda volta quest'anno che trafficanti armati si riprendono un barcone per il trasporto dei migranti in seguito ad un'operazione di soccorso in mare». Ed è già accaduto, durante l’operazione “Mare nostrum”, che i soccorritori della Marina abbordassero un gommone stracarico di gente, con scritto “Sar” - Search and rescue - sul fianco. La scritta indica che l’imbarcazione è stata utilizzata e soccorsa almeno per una traversata precedente verso l’Italia. Il 14 aprile l'allarme lanciato da Asso 21 attiva nave Bergamini, della Marina militare, che «ha individuato via radar il natante (dei libici, nda) e ne monitorava i movimenti anche con un elicottero». Dalla motovedetta in fuga comunicano via radio agli italiani: «Siamo della guardia costiera libica». La Marina fa finta di crederci. Secondo norme internazionali assurde, in queste circostanze, non si può intervenire su un natante “governativo” anche se la Libia è in mano alle milizie. E l'esecutivo di riferimento dei quattro ceffi a bordo è quello di Tripoli, accusato di collusione con gli estremisti islamici, che l'Italia non riconosce. Nel comunicato della Difesa si legge che la Marina non ha riscontrato «le condizioni per dare seguito ad ulteriori azioni, mentre il barchino veloce entrava nelle vicine acque territoriali libiche». Una beffa, che non è l'unica nel canale di Sicilia. Il 4 aprile la Marina sequestra un peschereccio, che traina un barcone con 716 migranti e arresta 5 sospetti scafisti compresi 2 libici. Una fonte militare rivela: «Le sedicenti autorità libiche hanno chiesto la restituzione del peschereccio e dei connazionali arrestati per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina». SCAFISTI Il 22 luglio i poliziotti di Messina ammanettano Tubo Momou, senegalese, che avrebbe minacciato i 578 migranti, traghettati dalla Libia verso l’Italia, di non dire nulla una volta sbarcati. Ed è sempre lui, che avrebbe chiamato i soccorsi della capitaneria di porto con un satellitare parlando in inglese. Pochi giorni dopo il giudice per le indagini preliminari si convince che testimonianze ed indizi a suo carico non sono sufficienti e lo scarcera. Momou, 22 anni, rimesso in libertà, si è già messo in fila per la richiesta di asilo in Italia. Dal primo gennaio dello scorso anno fino a luglio 2015 sono finiti in manette 745 delinquenti coinvolti nell’immigrazione clandestina, in gran parte scafisti. Secondo il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, dal primo maggio 2013 al 20 aprile scorso “sono 1000 gli scafisti/schiavisti arrestati in Italia”. Per tutti i reati relativi all’immigrazione clandestina risultano 1.142, i detenuti nel nostro paese fino al 30 giugno 2015. Secondo i dati forniti dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria gli stranieri sono il 91%. I libici, però, risultano appena 66, lo 0,39%. I boss del traffico di uomini, che si annidano dall’altra sponda del Mediterraneo (dalla Libia partono il 95% dei barconi) preferiscono arruolare scafisti stranieri pagandoli fino a 5mila dollari per timonare i barconi verso l’Italia. Non a caso la prima nazionalità degli arrestati dal gennaio 2014 è quella egiziana con 246 delinquenti finiti in manette. Molti sono pescatori e altri scafisti fai da te, come gli africani dal Senegal (38 arresti), Gambia (34), Eritrea (19), Somalia (15). I tunisini finiti in carcere come scafisti sono 149, al secondo posto in classifica ed i siriani 32. Nell’ultimo anno e mezzo solo 6 libici sono finiti in manette. A consegnare i moderni Caronte all’autorità giudiziaria ci pensa spesso la Marina militare: 366 durante la missione Mare nostrum durata un anno, fino al primo novembre 2014. Secondo il ministro della Difesa Roberta Pinotti, nel corso della nuova “operazione Mare sicuro sono stati fermati oltre 100 scafisti ed il 14 aprile sequestrata una nave madre”, che serve a smistare i migranti. Il business fa gola anche ai connazionali passati dal contrabbando di sigarette ed il trasporto di droga, al ben più redditizio traffico di merce umana. Quattro gli scafisti italiani arrestati dallo scorso febbraio dai militari del reparto operativo aeronavale della Guardia di finanza con sede a Bari. Grazie agli arresti praticamente in flagranza di reato le condanne sono aumentate, ma per i trafficanti di uomini in carcere le pene definitive sono appena 399, il 35%, circa uno su tre. Non sempre è facile incastrare gli scafisti. I testimoni talvolta non si presentano in tribunale per paura di ritorsioni o perché hanno raggiunto un altro paese. Ed in caso di condanna scatta l’ennesimo bidone per lo Stato ed il contribuente: nessuno pagherà mai un euro delle strabilianti pene pecuniarie inflitte dai giudici. Si parla di cifre attorno ad 1-2 milioni di euro e anche più calcolate secondo un computo che va dai 5mila euro fino ai 15mila per ogni passeggero trasportato sui barconi. In alcuni casi al danno si aggiunge la beffa della scarcerazione. In febbraio a Salerno, due scafisti tunisini vengono condannati a 1 milione e 400mila euro di multa. La pena, grazie al patteggiamento, è di 1 anno e 8 mesi, ma li scarcerano per espellerli. Non è escluso che li ritroveremo al timone di un altro barcone, come nel caso dell’egiziano Mohamed Ramzy, espulso nell'aprile 2014, ma rientrato in Italia al comando di un natante stracolmo di immigrati fatti sbarcare a Messina. Altra musica per Elmi Mouhamud Muhidin, rinchiuso nel carcere di Trapani con una condanna a trent’anni per la morte in mare di 366 migranti il 3 ottobre 2013. Haj Hammouda Radouan e Hamid Bouchab scontano a Catania rispettivamente l’ergastolo e 10 anni per il naufragio del 12 maggio 2014 con 200 vittime. Arduo che paghino le pene pecuniarie.
Nel carcere minorile di Catania non mancano una dozzina di baby scafisti, fra i 13 e 15 anni. Ragazzini ingaggiati con 500 o 1000 dollari, metà in contante ed il resto all’arrivo con pagamento via Money Transfer. Molti sono traghettatori di esseri umani per caso come il 25enne tunisino Mouhamed Alì Rami, che patteggia a Ragusa 3 anni di carcere da scontare ai domiciliari dal fratello. Figlio di un pescatore, difficile che paghi i 2 milioni e 400mila di multa per essersi offerto scafista solo per venire in Italia gratis. CRISTIANI GETTATI IN MARE E TESTE MOZZATE Disperazione e crudeltà sono facce della stessa medaglia nel fenomeno dell’immigrazione. E stanno venendo alla luce episodi di vera e propria persecuzione religiosa ai danni dei cristiani. Uno dei casi emblematici, fra i tanti sbarchi in Sicilia, riguarda tre nigeriani e sei ghanesi condannati a morte in mezzo al mare. Un folto gruppo di musulmani a bordo di un gommone nero prima li riempie di botte e poi li getta fuori bordo, uno ad uno, facendoli affogare. La loro colpa è non pregare Allah. L’11 aprile, intorno alle 20, dalla spiaggia libica di Garabuli, non lontano da Misurata, si imbarcano in 104. “Sul gommone eravamo divisi in gruppi per etnia” spiega agli investigatori uno dei superstiti cristiani, Agyamang Kweasi. Da una parte i clandestini del Senegal, della Costa d’Avorio e di altri paesi africani che parlano francese. Dall'altra ghanesi e nigeriani in prevalenza non musulmani. La maggioranza islamica nota che a bordo non tutti si genuflettono verso la Mecca. Domenica 12 aprile i cristiani pregano e alle 21 si scatena l’odio religioso. “Dopo un giorno di navigazione, i passeggeri che parlavano in francese si sono avventati contro ghanesi e nigeriani perchè eravamo di religione diversa. Noi cristiani e loro musulmani” racconta Kweasi. I fanatici islamici, che sono superiori di numero si avventano con calci e pugni contro i kafir, gli infedeli. “Fino a quando cominciano a gettare in mare alcuni di noi (…) sei ghanesi e tre nigeriani (…) li ho visti morire in acqua” denuncia il giovane africano scampato per un soffio ad una morte terribile. Il racconto dell’orrore si arricchisce di altri particolari grazie alle testimonianze riportate nell’atto di custodia cautelare del Tribunale di Palermo nei confronti di 14 carnefici. “Mentre loro continuavano a picchiare (…), noi abbiamo iniziato a pregare. – racconta Kweasi - Non so dire esattamente quanto sia durato il tutto. Credo almeno tre ore. Io pregavo Gesù Cristo (…) figlio di Dio (…) morto sulla croce per la nostra salvezza”. Gli estremisti musulmani cercano di annegare pure lui, ma il cristiano resiste: “Mi hanno dato calci sulle gambe, ma non ci sono riusciti. Io (…) pregavo e i miei amici hanno implorato queste persone, che hanno smesso. Credo che Dio mi abbia salvato”. Jamal Osman, un altro sopravvissuto, capisce il dialetto degli assalitori, che in mezzo al Mediterraneo inveiscono e urlano contro i cristiani. Uno dei musulmani “mi ha detto che ci avrebbero buttato in mare, io e i miei amici, perché non pregavamo Allah. Mi spiego: (…) questo malese mi disse che siccome non pregavamo Allah e non credevamo nello stesso Dio, dovevamo finire in mare”. Jamal si becca un pugno in fronte, ma viene risparmiato. Non sono così fortunati i nove annegati colpevoli solo di essere cristiani. Uno dopo l’altro vengono scaraventati in pasto ai pesci e abbandonati fra le onde. Emos Yeboah sopravvive, ma suo fratello Nana Yaw, 28 anni, è una delle vittime dell’odio religioso. Il ghanese fa i nomi degli ultimi due cristiani gettati in mare: Amankwana Kwasi e Asiedu Kwadwo. Il primo ha 35 anni ed il secondo circa 21, quando li buttano fuori bordo assieme al fratello. “Nessuno dei tre sapeva nuotare (…) appena sono stati gettati in mare sono annegati senza riuscire a far altro che gridare” testimonia il sopravvissuto. Augustin Kwadwohona rivela un particolare riconoscendo nelle foto segnaletiche uno degli aggressori: “Dopo avere gettato in mare due ghanesi ha cercato di buttare in mare anche me. Inoltre posso dire che è stato ferito ad un alluce con un morso da uno dei due che ha gettato in mare, il quale disperatamente cercava di resistere”. I cristiani superstiti, per evitare di venir sopraffatti, organizzano una specie di catena umana. Un tentativo disperato per non venir scaraventati tutti fuori bordo. La mattanza, durata tre ore, si interrompe con il provvidenziale arrivo del mercantile Ellensbors, che soccorre il gommone e trasporta sopravvissuti e carnefici a Palermo. Allo sbarco in Sicilia i sopravvissuti cominciano a parlare. Il procuratore aggiunto Maurizio Scalia, che coordina un gruppo specializzato sulle tratte e l'immigrazione clandestina, apre la delicata inchiesta. I testimoni riconoscono nelle foto segnaletiche 14 carnefici: Mohamed Kantina del Mali, Ousman Camara, Jean Baptìste Nabie, Kabine Konate, Kulibali Uma, Abubakar Keit, Aboubakar Sidibe, Moustafa Toumadi, Moussa Kamagnate, Kaba Somauro, Biliti Abbas e Hamed Doumbia della Costa d’Avorio. Morizio Mouri è della Guinea Bissau e Kante Bakadialy del Senegal. Allo sbarco Camara ha sull’alluce destro un’evidente fasciatura, dopo il morso di una delle sue vittime cristiane gettata in mare. I 14 fanatici finiscono in carcere con l’accusa di omicidio plurimo aggravato dall’odio religioso. Il procuratore aggiunto Scalia ha chiesto il giudizio immediato per tutti gli arrestati. Immigrazione non vuole dire solo carichi di disperati che affrontano viaggi pericolosi ed estenuanti rischiando la vita per raggiungere l’Europa. Se prima c’era il timore che qualche jihadista potesse sbarcare mescolato a profughi e clandestini in Sicilia, adesso abbiamo la certezza. Le procure di Catania e di Palermo hanno aperto delle inchieste per fare luce sulla scomparsa dai centri di accoglienza dell’isola di immigrati con fotografie, sui cellulari, che li immortalano in tenuta da miliziani islamici. Il caso più eclatante risale a giugno, quando un libico “ospite” del centro di accoglienza di Lampedusa viene notato mentre fa vedere a un connazionale delle foto archiviate su un tablet. Nelle inquietanti immagini indossa la mimetica e imbraccia un kalashnikov. In uno scatto si è fatto fotografare con ai piedi dei cadaveri di gente decapitata. Chi ha visto le fotografie dell’orrore parla di un’immagine che immortala il giovane con una testa mozzata in mano. Del tagliagole libico sbarcato a Lampedusa con un gruppo di migranti è trapelato solo il nome: Abubaker. Le forze dell’ordine, però, hanno la foto segnaletica - con tanto di riconoscimento da parte di un testimone - e conoscono le sue generalità. Anche se mantengono le bocche cucite a causa delle indagini in corso. “Era ben vestito rispetto agli altri migranti – dice un testimone - Un particolare che ha dato nell’occhio. Sembrava sicuro di sé, a suo agio e parlava italiano”. Da Lampedusa il libico viene trasferito sulla terraferma, come prevede il “sistema” di accoglienza per fare posto ad altri immigrati. E sparisce nel nulla con le foto delle teste mozzate.
[continua]




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