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Reportage
30 dicembre 2020 - Interni - Italia - Panorama
La meglio gioventù va in prima linea
Testo e foto Fausto Biloslavo e Serenella Bettin
“L’ambulanza arriva con un paziente colpito da infarto, come non contagiato. E’ grave e bisogna fare di tutto per salvarlo. Assieme al medico interveniamo subito, ma al primo controllo ci rendiamo conto che ha i segni del virus sui polmoni” racconta a Panorama, Giovanni Buttignon, 22 anni. Il giovane infermiere si è laureato il 18 novembre e sei giorni dopo era già in prima linea al pronto soccorso dell’ospedale di Gorizia. Il 9 dicembre si trova di fronte il paziente positivo pensando che non lo fosse. “Il brivido lungo la schiena lo senti subito. Mi sono aggrappato all’idea che ci vogliono 15 minuti per venire infettati. Eravamo ancora in tempo - spiega il giovanissimo infermiere - Alla velocità della luce ci siamo infilati tute e protezioni per continuare a stabilizzarlo, ma purtroppo il paziente non ce l’ha fatta”.
In tutta Italia un esercito di giovani medici e infermieri è stato lanciato sul fronte della pandemia, come i ragazzi del ’99, che lo scorso secolo, ancora alle prime armi, finirono in trincea nella prima guerra mondiale. “Noi giovani del ’98, cento anni dopo, siamo stati schierati in prima linea per  rimpiazzare le “perdite” del personale sanitario contagiato. Il mio dovere è combattere una “guerra” diversa, ma insidiosa contro un nemico invisibile” spiega Buttignon. Ogni volta che deve trattare un infettato “il sudore cola sotto la tuta e all’inizio le mani ti tremano, perché devi fare in fretta e non puoi sbagliare”.
Il Triveneto, dove correva la linea del fronte durante la prima guerra mondiale, è stato colpito duramente dalla seconda ondata della pandemia. Panorama ha seguito la “meglio gioventù”, che non si tira indietro e talvolta rappresenta il 30% del personale nei reparti anti covid.
“Mio nonno era un ragazzo del ’99, che ha combattuto sul Piave durante il primo conflitto mondiale. Ho lanciato nella mischia 13 giovani appena assunti. Sono i ragazzi del ’99 di questa guerra” dichiara orgoglioso, Marco Confalonieri, direttore del reparto di pneumologia semi intensiva respiratoria dell’ospedale di Cattinara a Trieste. Valentina Samola, 27 anni e Paolo Ghislieri, 26 sono due medici laureati l’anno scorso. Il reparto è l’anticamera dell’inferno: pazienti gravi affetti dal virus sotto i caschi per respirare e il fischio continuo dell’ossigeno che li mantiene in vita. Per entrare bisogna bardarsi da marziani con tuta bianca, doppi guanti, calzari, mascherina anti virus e visiera. Valentina si avvicina al capezzale di Tiziana che ricomincia a parlare: “Potrebbero essere i miei figli. Non si tratta solo dell’assistenza sanitaria, ma hanno sempre una parola gentile, di conforto. Dietro le protezioni appena li vedo, ma vorrei abbracciarli”.
La giovane in tuta racconta che “all’inizio è stata una battaglia perché non conoscevamo il covid e sapevamo poco o nulla sul virus. Avevamo pochissime terapie da mettere in atto. Poi andando avanti abbiamo capito come combattere e la paura è diminuita”. Paolo è orgoglioso di essere in trincea: “Quale momento migliore se non questo di iniziare a fare il medico, in mezzo ad una pandemia globale”. Un contagiato di mezza età, che sembra sparire fra le lenzuola e respira a fatica sussurra: “A questi giovani medici dovrebbero fare un monumento”. Ai due “ragazzi” non piaceva la retorica degli “eroi” durante la prima ondata, ma adesso “siamo passati quasi all’opposto nel mondo esterno. E’ finito il periodo degli applausi e degli striscioni”. Si aggirano nel reparto Lazzareto, un grande spazio aperto a pressione negativa per eliminare meglio il virus, controllando e rincuorando tutti. Valentina si rivolge a una signora che sta migliorando: “Come va? Sono contenta che riesce un po’ a parlare. Ok con la maschera?”. Un  degente di colore a pancia giù li scongiura “ogni tanto venite a controllare se è tutto a posto”. I giovani medici cercano di comunicare con un’altra paziente, che ha il volto coperto della maschera per l’ossigeno appannata: “Signora Bruna? Non ci sente è sedata”. Paolo spiega che “molti potrebbero essere nostri nonni. Sono fragili e disarmati di fronte alla malattia. E’ uno strazio, una sofferenza non avere un contatto fisico con i loro cari, ma li sproniamo a non mollare mai”. L’esperienza nell’anticamera dell’inferno è “fortissima - sostiene Valentina - e ci ha insegnato tanto sia professionalmente che dal punto di vista umano”. Però i medici neo laureati erano tutti inferociti per il blocco delle specializzazioni proprio in questo momento di emergenza. “La meglio gioventù, da sola non basta, perché dev’essere supportata da un’adeguata organizzazione a livello centrale - sostiene Paolo - Il ministro Gaetano Manfredi dell’Università e Ricerca deve sbloccare la graduatoria del concorso, ferma da tre mesi, per iniziare a specializzarci”.
In tutta Italia sono 14mila i medici abilitati coinvolti in questo scandaloso stallo da settembre. Il 21 dicembre il Consiglio di Stato ha finalmente confermato la graduatoria dando ragione al ministero per il via libera all’assegnazione dei posti.
In Veneto, un’altra regione flagellata dalla seconda ondata, Adele Di Costanzo, 27 anni, laureata nel 2019 è stata contagiata in ottobre, ma ha ripreso servizio per combattere il virus. “Sono peggiorata d’un tratto dopo un doppio turno - racconta a Panorama - La mattina ero andata in clinica e avevo un forte mal di testa, ma ho pensato fosse dovuto alla stanchezza. Poi a pranzo mi sono sentita davvero male e mi è venuta la febbre a 38 e mezzo. Ho fatto il tampone e intanto la febbre era già salita a 40. Poi ho iniziato ad avere problemi respiratori con desaturazione e fame d’aria. E così mi hanno ricoverata”. Adesso è tornata in prima linea a Vicenza con le “Unità speciali continuità assistenziale” (Usca), piccole squadre mobili che seguono i contagiati a domicilio. “La nostra giornata lavorativa dura 12 ore - racconta Adele - Fai conto un periodo di guerra in cui si impara tutto sul campo. Avrò visitato circa 400 pazienti finora”. Come gran parte dei giovani medici non ha un contratto, ma combatte il virus come co.co.co facendosi pagare a fattura. E quando è stata male per il covid non aveva alcun tipo d’indennizzo. Ma cosa spinge questi ragazzi a buttarsi nella mischia? “La voglia di dare una mano. Di imparare. Di rendermi utile - spiega Adele - E poi con gli ospedali al collasso, come fai a tirarti indietro?”.
Nel reparto malattie infettive del nosocomio di Padova, Samuele Gardin, 28 anni, sembra un ragazzino dallo sguardo timido, ma ha la vitalità dei giovani che vogliono cambiare il mondo. Ogni mattina arriva alle 7.40 e inizia a controllare le schede dei pazienti. Poi monitora, controlla, vaglia e sta attento che i contagiati non peggiorino da un momento all’altro. La sera torna a casa alle dieci. Mangia, va a letto ed il giorno dopo ricomincia.
Nonostante la risposta dei giovani reclutati per il fronte del virus, a novembre mancavano 53 mila infermieri in tutta Italia. “Facciamo i conti con 30 anni di scarsa lungimiranza - spiega Umberto Lucangelo, direttore del dipartimento di emergenza a Trieste - Per gli infermieri che dovrebbero essere 1 ogni 2 pazienti siamo 1 a 3. Se non si tornerà ad investire con decisione sul personale alla prossima ondata la prima linea verrà travolta”.
Francesca Cavaliere, 23 anni, segue con attenzione il corso sull’utilizzo dei caschi per i pazienti covid. Infermiera laureata un anno fa è alla seconda settimana in terapia intensiva. “Con la prima ondata ho contratto il virus in una casa di riposo per anziani - racconta la giovane dai capelli corvini e occhi scuri - Mi sentivo quasi in colpa, in isolamento a non poter fare nulla, rispetto agli altri del mio corso in prima linea”. Francesca si prepara minuziosamente nella stanza della vestizione prima di entrare nella zona rossa dell’intensiva. “Il primo impatto è stato molto forte. Non ho mai avuto a che fare con pazienti sedati, intubati. Non sapevo dove mettere le mani - ammette l’infermiera - Ho imparato dai colleghi sul campo di battaglia”. Dalla retina per i capelli al nastro adesivo per sigillare qualsiasi spiraglio della tuta dove possa infilarsi il virus, Francesca spiega: “Come le mimetiche per i militari, le tute protettive sono la nostra divisa. Ogni giorno lavoro a contatto con il virus e l’unica amarezza sono gli amici che continuano ad organizzare feste come se non ci fosse alcun  pericolo”.
La meglio gioventù “tappa” i buchi dove serve, come il centralino del 118 a Trieste. Francesca Carrozzo, 26 anni compiuti il giorno della laurea a luglio, sognava dal liceo di fare il medico “per coniugare scienza e umanità”. Capelli con la coda e orecchini a forma di Babbo Natale e stelline risponde alle chiamate di emergenza: “C’è tanta isteria. La gente ha paura di venire abbandonata. Ho ricevuto la telefonata di un signore di mezza età appena informato di essere positivo. Il padre era morto nella notte a causa del virus. Disperato aveva febbre e tosse, ma voleva sapere se poteva andare al funerale del papà”. Francesca fra poche settimane verrà impiegata nella prima linea della pandemia. Del suo corso il 70-80% ha risposto alla chiamate alle armi contro il virus.
Giulia Fumich, 22 anni, è diventata infermiera il 19 novembre anticipando la laurea di una settimana. Cinque giorni dopo ha fatto il primo turno nel reparto di Medicina generale dell’ospedale di Cattinara nel capoluogo giuliano. “Non ho paura per me, ma temo di portare il virus a casa, se venissi contagiata. Vivo con i miei genitori e uno dei nonni è immuno depresso” spiega la ragazza bionda con gli occhi limpidi come il mare. Il reparto è chiuso alle visite, ma non manca un grande presepe per non dimenticare il Natale. Francesca, in camice verde e mascherina, non ha dubbi: “E’ giusto che i ragazzi, classe ’98 come me, vengano arruolati negli ospedali. Siamo freschi, giovani e se non  affrontiamo noi la pandemia, chi lo deve fare?”.
[continua]

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06 giugno 2017 | Sky TG 24 | reportage
Terrorismo da Bologna a Londra
Fausto Biloslavo "Vado a fare il terrorista” è l’incredibile affermazione di Youssef Zaghba, il terzo killer jihadista del ponte di Londra, quando era stato fermato il 15 marzo dello scorso anno all’aeroporto Marconi di Bologna. Il ragazzo nato nel 1995 a Fez, in Marocco, ma con il passaporto italiano grazie alla madre Khadija (Valeria) Collina, aveva in tasca un biglietto di sola andata per Istanbul e uno zainetto come bagaglio. Il futuro terrorista voleva raggiungere la Siria per arruolarsi nello Stato islamico. Gli agenti di polizia in servizio allo scalo Marconi lo hanno fermato proprio perché destava sospetti. Nonostante sul cellulare avesse materiale islamico di stampo integralista è stato lasciato andare ed il tribunale del riesame gli ha restituito il telefonino ed il computer sequestrato in casa, prima di un esame approfondito dei contenuti. Le autorità inglesi hanno rivelato ieri il nome del terzo uomo sostenendo che non “era di interesse” né da parte di Scotland Yard, né per l’MI5, il servizio segreto interno. Il procuratore di Bologna, Giuseppe Amato, ha dichiarato a Radio 24, che "venne segnalato a Londra come possibile sospetto”. E sarebbero state informate anche le autorità marocchine, ma una fonte del Giornale, che ha accesso alle banche dati rivela “che non era inserito nella lista dei sospetti foreign fighter, unica per tutta Europa”. Non solo: Il Giornale è a conoscenza che Zaghba, ancora minorenne, era stato fermato nel 2013 da solo, a Bologna per un controllo delle forze dell’ordine senza esiti particolari. Il procuratore capo ha confermato che l’italo marocchino "in un anno e mezzo, è venuto 10 giorni in Italia ed è stato sempre seguito dalla Digos di Bologna. Abbiamo fatto tutto quello che si poteva fare, ma non c'erano gli elementi di prova che lui fosse un terrorista. Era un soggetto sospettato per alcune modalità di comportamento". Presentarsi come aspirante terrorista all’imbarco a Bologna per Istanbul non è poco, soprattutto se, come aveva rivelato la madre alla Digos “mi aveva detto che voleva andare a Roma”. Il 15 marzo dello scorso anno il procuratore aggiunto di Bologna, Valter Giovannini, che allora dirigeva il pool anti terrorismo si è occupato del caso disponendo un fermo per identificazione al fine di accertare l’identità del giovane. La Digos ha contattato la madre, che è venuta a prenderlo allo scalo ammettendo: "Non lo riconosco più, mi spaventa. Traffica tutto il giorno davanti al computer per vedere cose strane” ovvero filmati jihadisti. La procura ha ordinato la perquisizione in casa e sequestrato oltre al cellulare, alcune sim ed il pc. La madre si era convertita all’Islam quando ha sposato Mohammed il padre marocchino del terrorista che risiede a Casablanca. Prima del divorzio hanno vissuto a lungo in Marocco. Poi la donna è tornata casa nella frazione di Fagnano di Castello di Serravalle, in provincia di Bologna. Il figlio jihadista aveva trovato lavoro a Londra, ma nella capitale inglese era entrato in contatto con la cellula di radicali islamici, che faceva riferimento all’imam, oggi in carcere, Anjem Choudary. Il timore è che il giovane italo-marocchino possa essere stato convinto a partire per la Siria da Sajeel Shahid, luogotenente di Choudary, nella lista nera dell’ Fbi e sospettato di aver addestrato in Pakistan i terroristi dell’attacco alla metro di Londra del 2005. "Prima di conoscere quelle persone non si era mai comportato in maniera così strana” aveva detto la madre alla Digos. Il paradosso è che nessuna legge permetteva di trattenere a Bologna il sospetto foreign fighter ed il tribunale del riesame ha accolto l’istanza del suo avvocato di restituirgli il materiale elettronico sequestrato. “Nove su dieci, in questi casi, la richiesta non viene respinte” spiega una fonte del Giornale, che conosce bene la vicenda. Non esiste copia del materiale trovato, che secondo alcune fonti erano veri e propri proclami delle bandiere nere. E non è stato possibile fare un esame più approfondito per individuare i contatti del giovane. Il risultato è che l’italo-marocchino ha potuto partecipare alla mattanza del ponte di Londra. Parenti e vicini cadono dalle nuvole. La zia acquisita della madre, Franca Lambertini, non ha dubbi: “Era un bravo ragazzo, l'ultima volta che l'ho visto mi ha detto “ciao zia”. Non avrei mai pensato a una cosa del genere".

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16 marzo 2012 | Terra! | reportage
Feriti d'Italia
Fausto Biloslavo racconta le storie di alcuni soldati italiani feriti nel corso delle guerre in Afghanistan e Iraq. Realizzato per il programma "Terra" (Canale 5).

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14 marzo 2015 | Tgr Friuli-Venezia Giulia | reportage
Buongiorno regione
THE WAR AS I SAW IT - L'evento organizzato dal Club Atlantico giovanile del Friuli-Venezia Giulia e da Sconfinare si svolgerà nell’arco dell’intera giornata del 10 marzo 2015 e si articolerà in due fasi distinte: MATTINA (3 ore circa) ore 9.30 Conferenza sul tema del giornalismo di guerra Il panel affronterà il tema del giornalismo di guerra, raccontato e analizzato da chi l’ha vissuto in prima persona. Per questo motivo sono stati invitati come relatori professionisti del settore con ampia esperienza in conflitti e situazioni di crisi, come Gianandrea Gaiani (Direttore responsabile di Analisi Difesa, collaboratore di diverse testate nazionali), Fausto Biloslavo (inviato per Il Giornale in numerosi conflitti, in particolare in Medio Oriente), Elisabetta Burba (firma di Panorama), Gabriella Simoni (inviata Mediaset in numerosi teatri di conflitto, specialmente in Medio Oriente), Giampaolo Cadalanu (giornalista affermato, si occupa di politica estera per La Repubblica). Le relazioni saranno moderate dal professor Georg Meyr, coordinatore del corso di laurea in Scienze Internazionali e Diplomatiche dell’Università di Trieste. POMERIGGIO (3 ore circa) ore 14.30 Due workshop sul tema del giornalismo di guerra: 1. “Il reporter sul campo vs l’analista da casa: strumenti utili e accorgimenti pratici” - G. Gaiani, G. Cadalanu, E. Burba, F. Biloslavo 2. “Il freelance, l'inviato e l'addetto stampa in aree di crisi: tre figure a confronto” G. Simoni, G. Cuscunà, cap. B. Liotti

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27 gennaio 2020 | Radio 1 Italia sotto inchiesta | intervento
Italia
Esercito e siti ebraici
Fausto Biloslavo I nostri soldati rispettano la giornata della Memoria dell’Olocausto non solo il 27 gennaio, ma tutto l’anno. L’esercito, con l’operazione Strade sicure, schiera 24 ore al giorno ben 700 uomini in difesa di 58 siti ebraici sul territorio nazionale. Tutti obiettivi sensibili per possibile attentati oppure oltraggi anti semiti. “Per ora non è mai accaduto nulla anche grazie alla presenza dei militari, che serve da deterrenza e non solo. Il senso di sicurezza ha evitato episodi di odio e minacce ripetute come in Francia, che rischiano di provocare un esodo della comunità ebraica” spiega una fonte militare de il Giornale. I soldati, che si sono fatti le ossa all’estero, sorvegliano, quasi sempre con presidi fissi, 32 sinagoghe o tempi ebraici, 9 scuole, 4 musei e altri 13 siti distribuiti in tutta Italia, ma soprattutto al nord e al centro. La città con il più alto numero di obiettivi sensibili, il 41%, è Milano. Non a caso il comandante del raggruppamento di Strade sicure, come in altre città, è ufficialmente invitato alle celebrazioni del 27 gennaio, giorno della Memoria. Lo scorso anno, in occasione dell’anniversario della nascita dello Stato di Israele, il rappresentante della comunità ebraica di Livorno, Vittorio Mosseri, ha consegnato una targa al comandante dei paracadustisti. “Alla brigata Folgore con stima e gratitudine per il servizio di sicurezza prestato nell’ambito dell’operazione Strade sicure contribuendo con attenzione e professionalità al sereno svolgimento delle attività della nostro comunità” il testo inciso sulla targa. In questi tempi di spauracchi anti semiti l’esercito difende i siti ebraici in Italia con un numero di uomini praticamente equivalente a quello dispiegato in Afghanistan nel fortino di Herat. Grazie ad un’esperienza acquisita all’estero nella protezione delle minoranze religiose, come l’antico monastero serbo ortodosso di Decani in Kosovo. “In ogni città dove è presente la comunità ebraica esiste un responsabile della sicurezza, un professionista che collabora con le forze dell’ordine ed i militari per coordinare al meglio la vigilanza” spiega la fonte del Giornale. Una specie di “assessore” alla sicurezza, che organizza anche il sistema di sorveglianza elettronica con telecamere e sistemi anti intrusione di avanguardia su ogni sito. Non solo: se in zona appare un simbolo o una scritta anti semita, soprattuto in arabo, viene subito segnalata, fotografata, analizzata e tradotta. “I livelli di allerta talvolta si innalzano in base alla situazione internazionale” osserva la fonte militare. L’ultimo allarme ha riguardato i venti di guerra fra Iran e Stati Uniti in seguito all’eliminazione del generale Qassem Soleimani. Roma è la seconda città per siti ebraici presidiati dai militari compresi asili, scuole e oratori. Le sinagoghe sono sorvegliate pure a Napoli, Verona, Trieste e quando necessario vengono disposte le barriere di cemento per evitare attacchi con mezzi minati o utilizzati come arieti. A Venezia i soldati garantiscono la sicurezza dello storico ghetto. A Livorno e in altre città sono controllati anche i cimiteri ebraici. Una residenza per anziani legata alla comunità è pure nella lista dei siti protetti a Milano. Ed i militari di Strade sicure nel capoluogo lombardo non perdono d’occhio il memoriale della Shoah, lo sterminio degli ebrei voluto da Hitler.

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