Crepuscoli di Vietnam
Birmania | Cambogia | Filippine

Birmania – Manerplaw – Maggio 1985 Tutt’attorno è la notte. Giungla roca, muta, silenziosa. Sopraffatta dalla pioggia. Precipita e crepita su quella plastica per due, rigagnola nel collo, allaga le schiene. Io e te nel fango, schiena a schiena, sotto quell’unico poncho per la tua cinepresa e le mie macchine fotografiche. Ancora qui, in Birmania, come nove mesi fa. Di nuovo nel fango della giungla con i guerriglieri karen in attesa di una battaglia. Anche io e te caro Almerigo siamo ormai prigionieri della giungla, della saga cocciuta di questa minoranza in lotta dal 1948 contro la dittatura di Rangoon. Siamo nel sud est asiatico dall’estate scorsa. Ci siamo venuti per la Cambogia invasa dai vietnamiti. Per quel crepuscolo di Vietnam dove, dopo l’olocausto di Pol Pot i guerriglieri Khmer Rossi e gli ultimi anticomunisti continuano una spietata guerra a tre contro l’occupante. Qui i karen non mollano. Tu neppure. Scrivi ancora. La pila in bocca. Io vomito stanchezza. Nella trincea i guerriglieri scivolano nel fango, si preparano. Noi dormiamo: la mia testa sulle tue spalle, la tua sulle mie. Mi risvegliano i mortai, il crepitare dei kalashnikov, la tua mano sulla spalla “Si va”. “Dove….?” Siamo in mezzo alla battaglia.
Tu ci sguazzi dentro. Insegui un combattente, poi un altro. Sempre in piedi. Tra i proiettili. Come nel campo khmer, ritto, impalato con l’ultima pattuglia rimasta a far da scudo all’avanzata vietnamita. In piedi tra bombe e proiettili. Non so dove trovi quel coraggio. Ti sto vicino. Mi sento sicuro. Anche quando dici “non andrà sempre bene”. In fondo non ci credo.
Da te ho imparato a camminare per ore, giorni, settimane. A non mangiare. A stare immobile. Ad aspettare. Ho imparato la noia della guerra. I suoi ritmi e le sue regole. Ho imparato a sedermi su un sasso, a scrivere alla luce di una pila. Ho imparato a guardare, cercare, annotare. Ti ho osservato segnare il nome di un dimenticato contadino afghano. Chiederne pronuncia e grafia, ascoltarlo in silenzio. Ho imparato a misurare gli uomini. A soppesare parole e racconti. A costruire tessera dopo tessera le nostre storie. A te non so chi l’abbia insegnato. Ti viene naturale. Come quando scrivi in inglese e traduci in francese. Una mattina ci siamo salutati. Tu in Mozambico, io in Nicaragua, tra aerei che non aspettano. “Fai attenzione…” - ho detto. “Pensa a te….” - hai sussurrato. Hai acceso la cinepresa in un’alba d’Africa e hai camminato.
A testa alta. Come sempre.
Ma, per una volta, non sei più tornato.


gian micalessin

[continua]