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Reportage
24 settembre 2015 - Primo piano - Iraq - Corriere del Ticino
Tra i combattenti curdi spina nel fianco dell’Isis

IN TRINCEA CON I PESHMERGA IRRIDUCIBILE BLAURADO ANTI ISIS

SINJAR (nord ovest dell’Iraq) - “Isis siamo qui per combattere. Fatevi vedere e andate a farvi fottere” urla il maggiore dei Peshmerga sporgendosi dalla trincea ricavata con i sacchetti di sabbia. Poi si aggiusta sulla spalla l’Rpg per prendere la mira e spara un razzo che ci avvolge in una nuvola di fumo. Il colpo va a segno fra le macerie sottostanti di Sinjar, la città fantasma yazida ripulita etnicamente dall’avanzata dello scorso anno delle bandiere nere. Fra le case trasformate dalla guerra in scheletri di cemento armato si annidano i seguaci del Califfo, che rispondono al fuoco con due colpi di mortai. A quaranta metri da noi esplodono uno dopo l’altro con un fragore sinistro sulla prima linea curda nel nord dell’Iraq. 

La posizione di Sinjar è strategica. Poco distante dalla città scorre la principale arteria di rifornimento dello Stato islamico da e per la Siria. I combattenti curdi della 4° brigata sono annidati in periferia. E utilizzano gli armamenti forniti dalla missione di addestramento europea in Kurdistan composta da 600 militari di sette nazioni, come il razzo controcarro italiano Folgore. “Abbiamo sparato 15 colpi, ma poi si è inceppato e aspettiamo qualcuno che venga a sistemarlo - spiega il colonnello Isa Zewey nel posto di comando in prima linea - Il problema è che le armi arrivate dall’Europa non bastano. C’è bisogno di altro come blindati e visori notturni, che i nostri nemici hanno in quantità”.

La “cittadella” è una parte antica di Sinjar trasformata in prima linea. Dalle feritoie ricavate fra i sacchetti di sabbia si intravedono le postazioni delle bandiere nere a soli 200 metri. I Peshmerga usano degli specchi attaccati ad un bastone per osservarle senza venir colpiti. I cecchini del Califfo sparano ad intermittenza ed i proiettili sibilano sopra le nostre teste. I combattenti curdi fanno lo stesso, come nella prima guerra mondiale.

Quando il gioco si fa duro e le granate dei mortai pesanti del Califfo esplodono sempre più vicino al posto di comando intervengono i caccia della coalizione alleata. Una sagoma bianca si staglia nell’azzurro del cielo in un rombo sempre più assordante fino a quando non vengono sganciate un paio di bombe sugli obiettivi, che centrano le postazioni dello Stato islamico in città. Due alte colonne di fumo nero e grigio si alzano verso l’alto, mentre i Peshmerga esultano.

Lungo i 1000 chilometri di prima linea nel Kurdisatn, fino al confine con la Siria, operano i corpi speciali francesi e americani.  Gli altri 600 militari europei, sotto comando italiano, dispiegati da gennaio nel nord dell’Iraq addestrano i Peshmerga. Fino ad oggi hanno formato 4200 combattenti curdi. Nel poligono di Benaslava vicino ad Erbil, capoluogo del Kurdistan, un paracadutista del 187° reggimento Folgore urla gli ordini: “Questa è la direzione d’attacco contro l’Isis. Ok?”. Le reclute in mimetica verde scattano a prendere posizione per l’addestramento a fuoco organizzato dai soldati italiani. I paracadutisti sono 231 schierati nell’operazione Prima Parthica dal nome della legione romana di Settimio Severo, che alla fine del secondo secolo dopo Cristo si spinse fino in Mesopotamia. E piantò il campo proprio a Sinjar,  oggi occupata dalle bandiere nere.

I militari europei hanno l’ordine di tenere un basso profilo. Niente cognomi e volti mascherati davanti alle telecamere per evitare rappresaglie dell’Isis. Un istruttore che si era esposto con i media è stato minacciato assieme alla famiglia in patria ed è ritornato  a casa sotto scorta. Il comandante della missione è un colonnello italiano degli alpini, che non ha dubbi: “Dall’11 settembre la guerra al terrore non è mai finita. L’Isis rappresenta un pericolo globale non solo in Iraq e Siria, ma nel Sinai, in Nigeria e Libia. Una minaccia contro la civiltà che va sconfitta”.

Fra le colline di Atrush, 180 chilometri a nord ovest di Erbil, le reclute curde avanzano lentamente e guardinghe su due file ai bordi della pista sabbiosa. Il primo Peshmerga non fa in tempo ad alzare il pugno chiuso verso l’alto e gridare “stop”, che si accende un fumogeno rosso fra le sterpaglie. “E’ saltato su una mina. Addestrarli ad individuale è il nostro obiettivo. L’Isis è abilissimo a trasformare il campo di battaglia in un reticolo di trappole esplosive” spiega un sottufficiale dei guastatori paracadutisti, che li guida sul terreno. I bombaroli del Califfato imbottiscono di tritolo i cadaveri e minano addirittura i rubinetti nelle case abbandonate. Se qualcuno lo apre per dissetarsi salta in aria. Un altro sistema è l’attacco suicida contro le trincee curde a bordo dei “mostri”, gipponi o camion blindati artigianalmente con delle corazze, che vengono fermati solo dall’intervento aereo.

“Stiamo combattendo anche per voi europei, per l’Occidente contro una minaccia che riguarda il mondo intero. Dateci più munizioni, armi nuove, non obsolete e alla fine sconfiggeremo l’Isis e diventeremo un paese indipendente” spiega candidamente Abdul Salam Razak della compagnia Leoni sudato come una fontana durante l’addestramento.

 

Ad otto chilometri dal confine siriano è schierato in un paio di campi trincerati in mezzo al nulla, un battaglione yazida addestrato dai soldati italiani. Gli yazidi sono una minoranza religiosa nel mirino del Califfo, che li bolla “come adoratori del diavolo”. In realtà rappresentano un piccolo popolo millenario, che difende con le unghie ed i denti la terra ed il suo tempio attorno a Sinjar. I combattenti yazidi sono comandati dal colonnello Shukur Ghasem con i capelli bianchi a causa delle troppe guerre che ha vissuto. Veterano delle forze armate fin dai tempi di Saddam ringrazia gli europei per l’addestramento, “ma per battere l’Isis abbiamo bisogno di più. Non bastano 18 giorni per trasformare una recluta in soldato”. Dopo un’ispezione al fronte tira fuori una vecchia Luger fornita dai tedeschi: “Come possiamo vincere con le pistole che usava Rommel durante la seconda guerra mondiale?”.

 

LA TENDOPOLI ROVENTE CHE SEMBRA UN GIRONE DELL'INFERNO DANTESCO

ERBIL (nord dell’Iraq) - Il catino bollente fra le montagne è occupato da una distesa di tende bianche e azzurre delle Nazioni Unite. Più che un campo profughi nel nord dell’Iraq sembra un girone dantesco, dove sopravvivono 10.550 anime compresi 1500 bimbi sotto i tre anni. Tutti curdi fuggiti da Kobane, la Stalingrado del Califfato in Siria al confine con la Turchia, che aveva quasi conquistato e poi perso sotto i bombardamenti alleati.

La stragrande maggioranza dei dannati che vivono nella tendopoli di Gawer Gosik ha un solo pensiero: racimolare 5mila euro, il prezzo del viaggio clandestino verso l’Europa. Assad Murad, un giovane capetto dei rifugiati di Kobane smanetta sul telefonino per farci vedere la pubblicità dei trafficanti di essere umani, che circola in rete e viaggia da cellulare a cellulare. “Guarda. Questa è la mappa di come arrivare in Europa con le tappe, i costi, le indicazioni per il viaggio” spiega Murad mostrando una dettagliata schermata scritta in arabo. Ci sono tragitti indicati da freccette, le rotte alternative ed i prezzi. Il viaggio verso l’illusorio Eldorado europeo inizia dalla vicina Turchia. Ad ogni tappa un disegno o una piccola fotografia indica il gommone per passare l’Egeo, il traghetto per Atene, l’autobus o il treno verso Belgrado. Chi ha soldi può pagare 2500 dollari a tassisti compiacenti, che ti portano direttamente dai Balcani “nel cuore di Berlino”, secondo la promozione on line del viaggio clandestino. 

Il bello è che la mappa ci viene mostrata e spiegata nell’ufficio della polizia curda del campo. Gli agenti allargano le braccia e ammettono: “Molti non hanno neppure il passaporto. Noi distribuiamo delle tessere temporanee di rifugiato, ma tutti sognano di andarsene e raggiungere l’Europa”.

Per la regione autonoma del Kurdistan, nell’Iraq settentrionale, il peso di 112.624 profughi siriani, solo nella provincia di Erbil, è insostenibile. 

L’agenzia dei trafficanti lo sa e offre viaggi anche più comodi. Un sito internet che si chiama “Come andarsene dal Kurdistan” garantisce una partenza in aereo da Erbil per 12.500 dollari con un visto taroccato o comprato chissà come. 

L’assurdo è che i profughi di Kobane, in fuga dalla guerra, hanno diritto all’asilo, ma sono parcheggiati dall’inverno dello scorso anno in questo campo. L’Onu li registra su un foglio di “richiedenti asilo”, che “non vale niente” secondo gli stessi poliziotti di guardia. 

“Il sogno di quasi tutti in questa tendopoli è di raggiungere la Germania. Però costa 5mila euro a persona.  - spiega Murad - I trafficanti fanno pubblicità in rete per invogliarci, ma nessuno ti garantisce l’arrivo a destinazione”. E poi c’è il terrore della traversata via mare, anche se breve, dal porto turco di Smirne alle prime isole greche. “Se paghi di più ti portano con una barca sicura, altrimenti con 500 dollari trovi un posto su un gommone, ma rischi di annegare” spiega il capetto della tendopoli. 

Dall’isola greca di Kos, chiaramente indicata sulla mappa del viaggio, che gira sui cellulari, il migrante si imbarca sul traghetto diretto al Pireo. Poi in autobus prosegui per Salonicco oppure in treno con un biglietto di 46 euro. Il confine della Macedonia si attraversa a piedi e alla fine si arriva a Belgrado. Adesso la rotta non passa più per l’Ungheria, sigillata dall’esercito, ma verso ovest in Croazia, Slovenia e Austria. Gli aggiornamenti sulle rotte sono disponibili su Facebook o arrivano con i dettagli dei chilometri, del mezzo da usare e del costo via Viber o Whatsapp.

“Mia moglie ed io non abbiamo futuro, ma i nostri 3 figli quasi maggiorenni non vanno più a scuola dopo la fuga dalla Siria. Almeno loro devono partire” spiega Mahir Sal al Din al Habo sotto una tenda, che assomiglia ad una fornace. Ci offre una tazza di tè e sventola l’inutile pezzo di carta dell’Onu, che certifica come tutta la famiglia abbia diritto a chiedere l’asilo. 

 

Fuad ha 31 anni  e la sua giovane moglie coperta dal velo non riesce a nascondere lo sguardo spento. “La mia casa su due piani non esiste più. Prima occupata da Daesh (lo Stato islamico ndr) e poi bombardata dal cielo. Non ci restava che la via dell’esodo in Kurdistan” racconta seduto su una stuoia. “Come vedi adesso viviamo sotto una tenda. Ci pensiamo ad andare in Europa, ma non abbiamo soldi - spiega il giovane capofamiglia con la figlia di tre anni in braccio - Se fosse per me partirei lo stesso, ma penso alla bambina. Il viaggio è lungo, faticoso e attraversare il mare per raggiungere la Grecia troppo pericoloso per lei così piccola”.

 

ARCHEOLOGI, ULTIMA SPERANZA CONTRO LO SCEMPIO

DOHUK (nord dell’Iraq) - Il sole è sorto da poco e già soffia un vento da tempesta di sabbia. Laura Zanazzo è una giovane studentessa italiana innamorata dell’archeologia. Armata di spazzolino pulisce in un catino colmo di acqua infangata gli ultimi frammenti di ceramica riportati alla luce. “Siamo a 60 chilometri da Mosul occupata dallo Stato islamico, che minaccia il patrimonio culturale del Medio Oriente” sottolinea la bella ragazza. Alle cinque e mezzo del mattino una ventina di archeologi, studenti, dottorandi, restauratori sono già all’opera per strappare della grinfie del Califfato un pezzo di patrimonio dell’umanità. Alcuni dei siti della missione “terra di Ninive” sono ad un pugno di chilometri della linea del fronte fra i peshmerga curdi e le bandiere nere. “Dio non voglia, ma se avanzassero ancora distruggerebbero i rilievi assiri millenari di Maltai e quelli di Khinis, come hanno fatto con Palmira in Siria o con il museo di Mosul” mette in guardia Daniele Morandi Bonacossi. Il docente dell’università italiana di Udine è un veterano dell’archeologia in Medio Oriente dalla Siria all’Oman fino in Kurdistan.

“Infiltrarsi dietro le linee dello Stato islamico per salvare dei reperti sarebbe pura follia, ma ci sentiamo un po' Monuments men - spiega Morandi -  In Kurdistan siamo un piccolo presidio del patrimonio archeologico iracheno contro le barbarie dell’Isis colpevole di pulizia etnica e culturale”. I Monuments men della seconda guerra mondiale erano esperti civili arruolati e sbarcati in Normandia con la missione di recuperare i tesori d’arte trafugati dai nazisti.  George Clooney li ha resi famosi di recente con un film dedicato alla loro storia.

Nella "base" degli archeologi a Dohuk c’è chi restaura un piccolo vaso pieno di terra o disegna i reperti. Sul tetto altri ragazzi dividono i “cocci”, come chiamano i ritrovamenti, a seconda del periodo storico. Prima dell’inizio della fine, quando i turisti visitavano la Siria c’era la lista d’attesa per partecipare al progetto. Adesso le bandiere nere fanno paura. Il pericolo incombente è il rapimento degli occidentali, come confermano le segnalazioni dei servizi segreti. “Lo scorso anno abbiamo dovuto evacuare quando lo Stato islamico ha conquistato Mosul e arrivavano ad ondate masse bibliche di profughi cristiani e yazidi, la minoranza religiosa sterminata dal Califfato” ricorda il professore con i capelli brizzolati. Non ama il paragone con Indiana Jones, ma ci vuole un buon spirito di avventura per non mollare. Il progetto è finanziato dal governo di Roma, la Regione italiana del Friuli-Venezia Giulia, l’università di Udine e la Fondazione bancaria Crup. Su 3mila chilometri quadrati a nord di Mosul gli archeologi hanno individuato 700 siti. I satelliti americani avevano fotografato tutta l’area durante la guerra fredda, prima dell’urbanizzazione odierna. Il programma militare Corona, oggi desecretato, serve con le sue mappe ad individuare e salvare quello che resta del patrimonio archeologico iracheno.

Per raggiungere le millenarie sculture nella roccia dei re assiri, che sovrastano Dohuk bisogna fare una bella scarpinata. Pezzi di storia senza prezzo che fanno gola al Califfato. “Da un lato distruggono una parte dei monumenti e dall’altro saccheggiano i musei oppure organizzano scavi clandestini per contrabbandare i reperti attraverso Turchia e Libano, che vengono venduti in Europa, Stati Uniti ed i paesi del Golfo” rivela il monuments man italiano. Il governo di Baghdad denuncia che i seguaci delle bandiere nere hanno già saccheggiato 4500 monumenti nazionali. Il Dipartimento di stato Usa parla di un giro d’affari di “centinaia di milioni di dollari” secondo solo alle entrate dei pozzi di petrolio e gas occupati dallo Stato islamico. “Il Califfato rilascia dei permessi di scavo a delle bande, che trasformano i siti archeologici in groviera - spiega Morandi - In cambio incassano un pizzo del 20%”. In Europa i reperti arrivano in Svizzera, Germania, Inghilterra, Francia ed in misura minore in Italia.  Il traffico avviene attraverso antiquari, da Londra a New York, grandi case d’asta o semplicemente su E bay. 

Il bottino di guerra culturale è così importante che il Califfato lancia appelli via internet ad archeologici di sicura fede ad arruolarsi.  Alcuni sarebbero già stati reclutati dalla Turchia per scavare in Siria a Deir ez Zor ed Idlib, dove c’è il sito di Ebla. E assieme alle armi arrivano anche metal detector e altri strumenti di estrazione e analisi archeologica.

 

L’Unesco sorveglia con i satelliti i siti in mano allo Stato islamico, ma il rischio, fa notare Morandi, è di “accontentarci di fotografie e ricostruzioni archeologiche virtuali, se non proteggiamo sul terreno questo patrimonio dell'umanità”. Davanti ai resti di un cavaliere scolpito nella roccia, che potrebbe essere Alessandro Magno, l’archeologo rilancia l’idea dei caschi blu della cultura. “Pensiamo prima di tutto a salvare gli esseri umani, ma nel caso di un intervento militare per snidare le bandiere nere - osserva Morandi - mandiamo anche delle unità appositamente addestrate con degli archeologi al seguito per recuperare e preservare il patrimonio culturale di questo paese e dell’umanità”.

[continua]

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