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Fatti
15 giugno 2017 - Interni - Italia - Panorama |
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| I terroristi che si nascondono tra di noi |
Negli ultimi due anni, otto terroristi degli attentati più gravi in Europa sono passati per il nostro Paese. O avevano addirittura un passaporto italiano, come Youssef Zaghba 1, il terzo uomo del commando che il 3 giugno ha compiuto una strage a Londra. Ma gli attentatori di Parigi, Bruxelles, Nizza, Berlino e Londra potevano contare anche su una «rete» di fiancheggiatori. Finora sono state individuate una decina di persone, poi espulse o finite in manette, ma potrebbero essere solo la punta di un iceberg. Talora, come nel caso dell’italo-marocchino Zaghba, le segnalazioni del nostro antiterrorismo vengono sottovalutate. «Ben prima dell’ultimo attacco nella capitale del Regno Unito avevamo comunicato agli inglesi il numero di telefono di un utente britannico in contatto con un nostro sospettato di attività terroristica in Italia» rivela una fonte di Panorama in prima linea nella lotta alla guerra santa a casa nostra. «Al telefono parlavano di calcio, ma qualcosa non quadrava. Gli inglesi non l’hanno preso in considerazione, ma il sospetto era in contatto con il terrorista italo-marocchino dell’ultima strage» continua la fonte. «E adesso, dopo l’attacco, da Londra ci hanno mandato una serie di utenze da controllare che erano in contatto con l’italo-marocchino Zaghba, compresa quella da noi segnalata ma sottovalutata». Il 15 marzo 2016 il giovane marocchino nato nel 1995 a Fez, ma con passaporto italiano grazie alla madre convertita all’Islam, Khadija (Valeria) Collina, viene fermato all’aeroporto Marconi di Bologna. Biglietto di sola andata, nessun bagaglio, vuole prendere un volo per la Turchia e proseguire in Siria per arruolarsi nello Stato islamico. Agli stupefatti agenti di polizia dice: «Vado a fare il terrorista» per poi correggersi con «il turista». Sul cellulare ha scaricato video jihadisti, slogan e poesie religiose in arabo. L’assurdo è che viene lasciato andare: un anno dopo massacrerà a coltellate otto persone a Londra, ferendone altre 48, assieme ad altri due terroristi prima di venire eliminato. «Stiamo ricostruendo a ritroso la sua rete di contatti» spiegano dal Viminale. «Non tornava certo in Italia per starsene chiuso in casa con la madre, che vive vicino a Bologna (dopo la separazione dal marito in Marocco, ndr). Non a caso era seguito dalla Digos». E lunedì 13 giugno è saltato fuori un filmato tv in cui il ragazzo era in giro con un gruppo di amici tra i locali di Rimini. L’ultima volta è tornato dalla mamma a dicembre, ma in Italia ha passato almeno 60 giorni in varie trasferte proveniente dal Marocco o dall’Inghilterra. Il padre, Mohammed, vive a Casablanca e ha portato il figlio sulla strada radicale dei Tabligh Eddawa, i «testimoni di Geova» dell’Islam duro e puro. «Predicatori estremisti che a Bologna hanno centri in via Zanardi e via Libia» spiega Giovanni Giacalone, analista del jihadismo. Secondo una fonte di intelligence europea, Zaghba è stato presentato al capo del commando di Londra, Khuram Butt, «dai contatti italiani della rete Al-Muhajiroun fondata dal predicatore Anjem Choudary». Il gruppo estremista è stato messo al bando in Inghilterra, ma ha ancora addentellati in Italia, come Zakaria Mohammed Youbi espulso ai primi di giugno dal Bresciano per attività jihadista. Il «cattivo maestro» Choudary è in prigione in Gran Bretagna, dove sconta una condanna di 5 anni e mezzo come reclutatore del terrore. Fino a inizio 2015 pontificava su La 7 da Londra, giustificando la strage al settimanale satirico Charlie Hebdo e annuciando: «Un giorno Roma sarà nostra. Non stupitevi se anche l’Italia subirà attentati». Sotto la lente ci sono almeno una ventina di contatti del terrorista italo-marocchino, ma si punta pure sulla pista di uno o più versamenti di denaro via money transfer da cittadini britannici di origine pachistana verso l’Italia. Solo sei mesi fa, il 23 dicembre, la polizia ha ucciso Anis Amri 2 a Sesto San Giovanni, provincia di Milano. Il tunisino che al volante di un camion killer aveva fatto strage al mercatino era in fuga attraverso il nostro Paese. Nel 2001 era sbarcato con un barcone a Lampedusa, per finire subito in carcere dopo aver incendiato il centro di accoglienza. «Uno dei motivi per cui non ci sono stati ancora grossi attacchi da noi è l’arrivo dei migranti» rivela una fonte dell’antiterrorismo. «L’Italia è la porta di ingresso in Europa e a loro va bene: un attentato provocherebbe la chiusura delle frontiere. Meglio che continuino ad arrivare migranti a maggioranza islamica». Un altro investigatore in prima linea conferma che «sui canali dei migranti i terroristi hanno mandato degli esploratori, per fare da apripista agli operativi. Abbiamo sentito chi ha viaggiato lungo la rotta balcanica assieme agli attentatori di Parigi e Bruxelles senza sapere chi fossero veramente». In quattro anni dietro le sbarre Amri si radicalizza. Una volta uscito, va in Germania per unirsi a una cellula salafita e uccidere il 19 dicembre a Berlino 12 persone in nome dell’Isis. Il suo primo possibile «contatto» in Italia a venire individuato, il 24 dicembre, è il tunisino Chebli Sami 3 , fermato a Falconara Marittima vicino ad Ancona e in seguito espulso. Il 13 marzo è espulso un altro tunisino, Hisham Alhaabi. Per l’antiterrorismo risulta «intestatario di una utenza emersa tra i contatti di Anis Amri, quando quest’ultimo, nel giugno 2015, era stato ospitato a casa di Yaakoubi Montasser e della sua compagna ad Aprilia». Gli ultimi due contatti della rete del killer di Berlino collegati all’Italia sono il marocchino Soufiane Amri 4 e il congolese Lutumba Nkanga 5 , arrestati il 28 aprile per terrorismo grazie all’inchiesta «Transito silente» di Brindisi: il primo, seguace dello Stato islamico, è in contatto con Amri a Berlino, dopo l’espulsione dall’Italia. Della cellula tedesca fa parte pure il congolese, già ospite del Centro di permanenza per rifugiati di Restinco, provincia di Brindisi. Anche Mohamed Lahaouiej Bouhlel 6 , il macellaio del lungomare di Nizza, che ha fatto fuori 86 persone al volante di un camion, è passato per l’Italia. Nel giugno 2015 è ripreso in un video e identificato dalla polizia a Ventimiglia, mentre partecipa a una manifestazione pro migranti dell’associazione «Au coeur de l’espoir» di Nizza. Il suo complice, il tunisino Chokri Chafoud 7 , che lo aizzava via sms a lanciarsi con il camion sulla folla, ha vissuto per anni a Gravina di Puglia. Un’altra complice, l’albanese Enkeledja Zace, che con il marito ha fornito una pistola al killer di Nizza, spesso in Italia, è stata arrestata nel 2015 dai carabinieri per favoreggiamento all’immigrazione clandestina sempre a Ventimiglia. Proprio da Bari è passato due volte, l’1 e il 5 agosto 2015, Abdeslam Salah 8 , l’unico terrorista sopravissuto delle cellule di Parigi e Bruxelles in carcere nella capitale francese. Assieme ad Ahmad Dahmani, che verrà arrestato in Turchia una settimana dopo la strage di Parigi per aver fatto i sopralluoghi sugli obiettivi, si imbarca su un traghetto per raggiungere il Pireo e incontrare ad Atene il capo del commando di Parigi Abdelhamid Abaaoud. Il 6 agosto, rientrato a Bari, Salah ripercorre in auto tutta l’Italia, come all’andata, lasciando tracce con la carta di credito. L’ultima volta è un pieno di benzina a Como. Ismael Omar Mostefai, uno dei kamikaze del Bataclan (dove è stata uccisa la veneziana Valeria Solesin) era transitato nel nostro paese nel 2013 da Marsiglia per raggiungere la Siria e arruolarsi nel Califfato. Pure Khalid el-Bakraoui 9 , il terrorista che si è fatto saltare in aria nella metro di Bruxelles il 22 marzo 2016, ha usato l’Italia come transito. Il 23 luglio 2015 era volato dal Belgio all’aeroporto di Treviso con Ryanair. Poi si è spostato a Venezia alloggiando all’hotel Courtyard by Marriott dell’aeroporto, che costa non meno di 224 euro a notte. Alla fine si è imbarcato su un aereo Volotea per Atene. «Molti terroristi passano per l’Italia settentrionale perché hanno un riferimento specifico fra la provincia di Venezia e quella di Treviso» sostiene Sabrina Magris, esperta del fenomeno jihadista. «Il soggetto non è stato arrestato perché non faceva, in apparenza, nulla di illegale. Si trattava di una sorta di guida spirituale». I complici o fiancheggiatori dei terroristi di Parigi e Bruxelles che hanno avuto a che fare con l’Italia sono personaggi del calibro di Gelel Attar 10 , nato nel 1989 a Castel San Giovanni, provincia di Piacenza. A 15 anni lascia l’Italia per il quartiere islamico di Molenbeek, Bruxelles, dove sono nati e cresciuti i terroristi locali e quelli di Parigi. È fra i primi di Molenbeek ad andare a combattere in Siria. Nel 2013 rientra in Europa e aiuta a pianificare i futuri attacchi. Il 15 gennaio 2016 viene arrestato in Marocco. Tre giorni dopo l’attentato di Bruxelles, il 25 marzo 2016, finisce in manette in Germania il marocchino Mohammed Lahlaoui 11 che per sette anni ha vissuto a Vestone, nel bresciano, prima di venire espulso. Lahlaoui ha scambiato sms con il kamikaze di Bruxelles, Khalid El Bakraoui, compreso un ultimo messaggio con la parola «fine». Il falsario che ha fornito documenti contraffatti a tre terroristi di Parigi e Bruxelles, l’algerino Djamal Eddine Ouali 12 , è scappato in macchina dal Belgio in Italia attraverso il Brennero, dove sperava di trovare rifugio. Il 26 marzo 2016 è stato arrestato in provincia di Salerno. «In Italia si possono annidare soggetti pericolosi o terroristi in transito, che poi si macchiano di clamorosi attentati, per ora in altri Paesi europei» spiega a Panorama un’altra fonte in primissima linea nella lotta al terrore. «Un domani, però, potrebbero colpire anche a casa nostra. Forse non c’è una vera e propria rete, ma esiste un humus che consente a elementi jihadisti o latitanti di muoversi liberamente, senza grossi ostacoli». |
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06 giugno 2017 | Sky TG 24 | reportage
Terrorismo da Bologna a Londra
Fausto Biloslavo
"Vado a fare il terrorista” è l’incredibile affermazione di Youssef Zaghba, il terzo killer jihadista del ponte di Londra, quando era stato fermato il 15 marzo dello scorso anno all’aeroporto Marconi di Bologna. Il ragazzo nato nel 1995 a Fez, in Marocco, ma con il passaporto italiano grazie alla madre Khadija (Valeria) Collina, aveva in tasca un biglietto di sola andata per Istanbul e uno zainetto come bagaglio. Il futuro terrorista voleva raggiungere la Siria per arruolarsi nello Stato islamico. Gli agenti di polizia in servizio allo scalo Marconi lo hanno fermato proprio perché destava sospetti. Nonostante sul cellulare avesse materiale islamico di stampo integralista è stato lasciato andare ed il tribunale del riesame gli ha restituito il telefonino ed il computer sequestrato in casa, prima di un esame approfondito dei contenuti.
Le autorità inglesi hanno rivelato ieri il nome del terzo uomo sostenendo che non “era di interesse” né da parte di Scotland Yard, né per l’MI5, il servizio segreto interno. Il procuratore di Bologna, Giuseppe Amato, ha dichiarato a Radio 24, che "venne segnalato a Londra come possibile sospetto”. E sarebbero state informate anche le autorità marocchine, ma una fonte del Giornale, che ha accesso alle banche dati rivela “che non era inserito nella lista dei sospetti foreign fighter, unica per tutta Europa”.
Non solo: Il Giornale è a conoscenza che Zaghba, ancora minorenne, era stato fermato nel 2013 da solo, a Bologna per un controllo delle forze dell’ordine senza esiti particolari. Il procuratore capo ha confermato che l’italo marocchino "in un anno e mezzo, è venuto 10 giorni in Italia ed è stato sempre seguito dalla Digos di Bologna. Abbiamo fatto tutto quello che si poteva fare, ma non c'erano gli elementi di prova che lui fosse un terrorista. Era un soggetto sospettato per alcune modalità di comportamento".
Presentarsi come aspirante terrorista all’imbarco a Bologna per Istanbul non è poco, soprattutto se, come aveva rivelato la madre alla Digos “mi aveva detto che voleva andare a Roma”. Il 15 marzo dello scorso anno il procuratore aggiunto di Bologna, Valter Giovannini, che allora dirigeva il pool anti terrorismo si è occupato del caso disponendo un fermo per identificazione al fine di accertare l’identità del giovane. La Digos ha contattato la madre, che è venuta a prenderlo allo scalo ammettendo: "Non lo riconosco più, mi spaventa. Traffica tutto il giorno davanti al computer per vedere cose strane” ovvero filmati jihadisti. La procura ha ordinato la perquisizione in casa e sequestrato oltre al cellulare, alcune sim ed il pc.
La madre si era convertita all’Islam quando ha sposato Mohammed il padre marocchino del terrorista che risiede a Casablanca. Prima del divorzio hanno vissuto a lungo in Marocco. Poi la donna è tornata casa nella frazione di Fagnano di Castello di Serravalle, in provincia di Bologna. Il figlio jihadista aveva trovato lavoro a Londra, ma nella capitale inglese era entrato in contatto con la cellula di radicali islamici, che faceva riferimento all’imam, oggi in carcere, Anjem Choudary. Il timore è che il giovane italo-marocchino possa essere stato convinto a partire per la Siria da Sajeel Shahid, luogotenente di Choudary, nella lista nera dell’ Fbi e sospettato di aver addestrato in Pakistan i terroristi dell’attacco alla metro di Londra del 2005. "Prima di conoscere quelle persone non si era mai comportato in maniera così strana” aveva detto la madre alla Digos.
Il paradosso è che nessuna legge permetteva di trattenere a Bologna il sospetto foreign fighter ed il tribunale del riesame ha accolto l’istanza del suo avvocato di restituirgli il materiale elettronico sequestrato. “Nove su dieci, in questi casi, la richiesta non viene respinte” spiega una fonte del Giornale, che conosce bene la vicenda. Non esiste copia del materiale trovato, che secondo alcune fonti erano veri e propri proclami delle bandiere nere. E non è stato possibile fare un esame più approfondito per individuare i contatti del giovane. Il risultato è che l’italo-marocchino ha potuto partecipare alla mattanza del ponte di Londra.
Parenti e vicini cadono dalle nuvole. La zia acquisita della madre, Franca Lambertini, non ha dubbi: “Era un bravo ragazzo, l'ultima volta che l'ho visto mi ha detto “ciao zia”. Non avrei mai pensato a una cosa del genere".
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30 aprile 2020 | Tg5 | reportage
L'anticamera dell'inferno
Fausto Biloslavo
TRIESTE - “Per noi in prima linea c’è il timore che il ritorno alla vita normale auspicata da tutti possa portare a un aumento di contagi e dei ricoveri di persone in condizioni critiche” ammette Gianfranco, veterano degli infermieri bardato come un marziano per proteggersi dal virus. Dopo anni in pronto soccorso e terapia intensiva lavorava come ricercatore universitario, ma si è offerto volontario per combattere la pandemia. Lunedì si riapre, ma non dimentichiamo che registriamo ancora oltre 250 morti al giorno e quasi duemila nuovi positivi. I guariti aumentano e il contagio diminuisce, però 17.569 pazienti erano ricoverati con sintomi fino al primo maggio e 1578 in rianimazione. Per entrare nel reparto di pneumologia semi intensiva respiratoria dell’ospedale di Cattinara a Trieste bisogna seguire una minuziosa procedura di vestizione. Mascherina di massima protezione, tuta bianca, copri scarpe, doppi guanti e visiera per evitare il contagio. Andrea Valenti, responsabile infermieristico, è la guida nel reparto dove si continua a combattere, giorno e notte, per strappare i contagiati alla morte. Un grande open space con i pazienti più gravi collegati a scafandri o maschere che li aiutano a respirare e un nugolo di tute bianche che si spostano da un letto all’altro per monitorare o somministrare le terapie e dare conforto. Un contagiato con i capelli grigi tagliati a spazzola sembra quasi addormentato sotto il casco da marziano che pompa ossigeno. Davanti alla finestra sigillata un altro paziente che non riesce a parlare gesticola per indicare agli infermieri dove sente una fitta di dolore. Un signore cosciente, ma sfinito, con i tubi dell’ossigeno nel naso è collegato, come gli altri, a un monitor che segnala di continuo i parametri vitali. “Mi ha colpito un paziente che descriveva la sensazione terribile, più brutta del dolore, di non riuscire a respirare. Diceva che “è come se mi venisse incontro la morte”” racconta Marco Confalonieri direttore della struttura complessa di pneumologia e terapia intensiva respiratoria al dodicesimo piano della torre medica di Cattinara. La ventilazione non invasiva lascia cosciente il paziente che a Confalonieri ha raccontato come “bisogna diventare amico con la macchina, mettersi d’accordo con il ventilatore per uscire dal tunnel” e tornare alla vita.
Una “resuscitata” è Vasilica, 67 anni, operatrice di origine romena di una casa di risposo di Trieste dove ha contratto il virus. “Ho passato un inferno collegata a questi tubi, sotto il casco, ma la voglia di vivere e di rivedere i miei nipoti, compreso l’ultimo che sta per nascere, ti fa sopportare tutto” spiega la donna occhialuta con una coperta sulle spalle, mascherina e tubo per l’ossigeno. La sopravvissuta ancora ansima quando parla del personale: “Sono angeli. Senza questi infermieri, medici, operatori sanitari sarei morta. Lottano ogni momento al nostro fianco”.
Il rumore di fondo del reparto è il ronzio continuo delle macchine per l’ossigeno. L’ambiente è a pressione negativa per aspirare il virus e diminuire il pericolo, ma la ventilazione ai pazienti aumenta la dispersione di particelle infette. In 6 fra infermieri ed un medico sono stati contagiati. “Mi ha colpito la telefonata di Alessandra che piangendo ripeteva “non è colpa mia, non è colpa mia” - racconta Confalonieri con il volto coperto da occhialoni e maschera di protezione - Non aveva nessuna colpa, neppure sapeva come si è contagiata, ma si struggeva per dover lasciare soli i colleghi a fronteggiare il virus”.
Nicol Vusio, operatrice sanitaria triestina di 29 anni, ha spiegato a suo figlio che “la mamma è in “guerra” per combattere un nemico invisibile e bisogna vincere”. Da dietro la visiera ammette: “Me l’aspettavo fin dalla prime notizie dalla Cina. Secondo me avremmo dovuto reagire molto prima”. Nicol racconta come bagna le labbra dei pazienti “che con gli occhi ti ringraziano”. I contagiati più gravi non riescono a parlare, ma gli operatori trovano il modo di comunicare. “Uno sguardo, la rotazione del capo, il movimento di una mano ti fa capire se il paziente vuole essere sollevato oppure girato su un fianco o se respira male” spiega Gianfranco, infermiere da 30 anni.
Il direttore sottolinea che “il covid “cuoce” tutti gli organi, non solo il polmone e li fa collassare”, ma il reparto applica un protocollo basato sul cortisone che ha salvato una novantina di contagiati. Annamaria è una delle sopravvissute, ancora debole. Finalmente mangia da sola un piattino di pasta in bianco e con un mezzo sorriso annuncia la vittoria: “Il 7 maggio compio 79 anni”.
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05 aprile 2020 | Tg5 | reportage
Virus, il fronte che resiste in Friuli-Venezia Giulia
Fausto Biloslavo
TRIESTE - “Anche noi abbiamo paura. E’ un momento difficile per tutti, ma dobbiamo fare il nostro dovere con la maggiore dedizione possibile” spiega Demis Pizzolitto, veterano delle ambulanze del 118 nel capoluogo giuliano lanciate nella “guerra” contro il virus maledetto. La battaglia quotidiana inizia con la vestizione: tuta bianca, doppi guanti, visiera e mascherina per difendersi dal contagio. Il veterano è in coppia con Fabio Tripodi, una “recluta” arrivata da poco, ma subito spedita al fronte. Le due tute bianche si lanciano nella mischia armati di barella per i pazienti Covid. “Mi è rimasta impressa una signora anziana, positiva al virus, che abbiamo trasportato di notte - racconta l’infermiere Pizzolitto - In ambulanza mi ha raccontato del marito invalido rimasto a casa. E soffriva all’idea di averlo lasciato solo con la paura che nessuno si sarebbe occupato di lui”.
Bardati come due marziani spariscono nell’ospedale Maggiore di Trieste, dove sono ricoverati un centinaio di positivi, per trasferire un infetto che ha bisogno di maggiori cure. Quando tornano caricano dietro la barella e si chiudono dentro l’ambulanza con il paziente semi incosciente. Si vede solo il volto scavato che spunta dalle lenzuola bianche. Poi via a sirene spiegate verso l’ospedale di Cattinara, dove la terapia intensiva è l’ultima trincea per fermare il virus.
Il Friuli-Venezia Giulia è il fronte del Nord Est che resiste al virus grazie a restrizioni draconiane, anche se negli ultimi giorni la gente comincia ad uscire troppo di casa. Un decimo della popolazione rispetto alla Lombardia ha aiutato a evitare l’inferno di Bergamo e Brescia. Il 4 aprile i contagiati erano 1986, i decessi 145, le guarigioni 220 e 1103 persone si trovano in isolamento a casa. Anche in Friuli-Venezia Giulia, come in gran parte d’Italia, le protezioni individuali per chi combatte il virus non bastano mai. “Siamo messi molto male. Le stiamo centellinando. Più che con le mascherine abbiamo avuto grandi difficoltà con visiere, occhiali e tute” ammette Antonio Poggiana, direttore generale dell’Azienda sanitaria di Trieste e Gorizia. Negli ultimi giorni sono arrivate nuove forniture, ma l’emergenza riguarda anche le residenze per anziani, flagellate dal virus. “Sono “bombe” virali innescate - spiega Alberto Peratoner responsabile del 118 - Muoiono molti più anziani di quelli certificati, anche 4-5 al giorno, ma non vengono fatti i tamponi”.
Nell’ospedale di Cattinara “la terapia intensiva è la prima linea di risposta contro il virus, il nemico invisibile che stiamo combattendo ogni giorno” spiega Umberto Lucangelo, direttore del dipartimento di emergenza. Borse sotto gli occhi vive in ospedale e da separato in casa con la moglie per evitare qualsiasi rischio. Nella trincea sanitaria l’emergenza si tocca con mano. Barbara si prepara con la tuta anti contagio che la copre dalla testa ai piedi. Un’altra infermiera chiude tutti i possibili spiragli delle cerniere con larghe strisce di cerotto, come nei film. Simile ad un “palombaro” le scrivono sulla schiena il nome e l’orario di ingresso con un pennarello nero. Poi Barbara procede in un’anticamera con una porta a vetri. E quando è completamente isolata allarga le braccia e si apre l’ingresso del campo di battaglia. Ventuno pazienti intubati lottano contro la morte grazie agli angeli in tuta bianca che non li mollano un secondo, giorno e notte. L’anziano con la chioma argento sembra solo addormentato se non fosse per l’infinità di cannule infilate nel corpo, sensori e macchinari che pulsano attorno. Una signora è coperta da un telo blu e come tutti i pazienti critici ripresa dalle telecamere a circuito chiuso.
Mara, occhioni neri, visiera e mascherina spunta da dietro la vetrata protettiva con uno sguardo di speranza. All’interfono racconta l’emozione “del primo ragazzo che sono riuscito a svegliare. Quando mi ha visto ha alzato entrambi i pollici in segno di ok”. E se qualcuno non ce la fa Mara spiega “che siamo preparati ad accompagnare le persone verso la morte nella maniera più dignitosa. Io le tengo per mano per non lasciarle sole fino all’ultimo momento”.
Erica Venier, la capo turno, vuole ringraziare “con tutto il cuore” i triestini che ogni giorno fanno arrivare dolci, frutta, generi di conforto ai combattenti della terapia intensiva. Graziano Di Gregorio, infermiere del turno mattutino, è un veterano: “Dopo 22 anni di esperienza non avrei mai pensato di trovarmi in una trincea del genere”. Il fiore all’occhiello della rianimazione di Cattinara è di non aver perso un solo paziente, ma Di Gregorio racconta: “Infermieri di altre terapie intensive hanno dovuto dare l’estrema unzione perchè i pazienti sono soli e non si può fare diversamente”.
L’azienda sanitaria sta acquistando una trentina di tablet per cercare di mantenere un contatto con i familiari e permettere l’estremo saluto. Prima di venire intubati, l’ultima spiaggia, i contagiati che hanno difficoltà a respirare sono aiutati con maschere o caschi in un altro reparto. Il direttore, Marco Confalonieri, racconta: “Mio nonno era un ragazzo del ’99, che ha combattuto sul Piave durante il primo conflitto mondiale. Ho lanciato nella mischia 13 giovani appena assunti. Sono i ragazzi del ’99 di questa guerra”.
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20 giugno 2017 | WDR | intervento |
Italia
Più cittadini italiani con lo ius soli
Estendere la cittadinanza italiana ai bambini figli di stranieri? È la proposta di legge in discussione in Senato in questi giorni. Abbiamo sentito favorevoli e contrari.
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