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Fatti
15 giugno 2017 - Interni - Italia - Panorama
I terroristi che si nascondono tra di noi
Negli ultimi due anni, otto terroristi degli attentati più gravi in Europa sono passati per il nostro Paese. O avevano addirittura un passaporto italiano, come Youssef Zaghba 1, il terzo uomo del commando che il 3 giugno ha compiuto una strage a Londra. Ma gli attentatori di Parigi, Bruxelles, Nizza, Berlino e Londra potevano contare anche su una «rete» di fiancheggiatori. Finora sono state individuate una decina di persone, poi espulse o finite in manette, ma potrebbero essere solo la punta di un iceberg.
Talora, come nel caso dell’italo-marocchino Zaghba, le segnalazioni del nostro antiterrorismo vengono sottovalutate. «Ben prima dell’ultimo attacco nella capitale del Regno Unito avevamo comunicato agli inglesi il numero di telefono di un utente britannico in contatto con un nostro sospettato di attività terroristica in Italia» rivela una fonte di Panorama in prima linea nella lotta alla guerra santa a casa nostra. «Al telefono parlavano di calcio, ma qualcosa non quadrava. Gli inglesi non l’hanno preso in considerazione, ma il sospetto era in contatto con il terrorista italo-marocchino dell’ultima strage» continua la fonte. «E adesso, dopo l’attacco, da Londra ci hanno mandato una serie di utenze da controllare che erano in contatto con l’italo-marocchino Zaghba, compresa quella da noi segnalata ma sottovalutata».
Il 15 marzo 2016 il giovane marocchino nato nel 1995 a Fez, ma con passaporto italiano grazie alla madre convertita all’Islam, Khadija (Valeria) Collina, viene fermato all’aeroporto Marconi di Bologna. Biglietto di sola andata, nessun bagaglio, vuole prendere un volo per la Turchia e proseguire in Siria per arruolarsi nello Stato islamico. Agli stupefatti agenti di polizia dice: «Vado a fare il terrorista» per poi correggersi con «il turista». Sul cellulare ha scaricato video jihadisti, slogan e poesie religiose in arabo. L’assurdo è che viene lasciato andare: un anno dopo massacrerà a coltellate otto persone a Londra, ferendone altre 48, assieme ad altri due terroristi prima di venire eliminato.
«Stiamo ricostruendo a ritroso la sua rete di contatti» spiegano dal Viminale. «Non tornava certo in Italia per starsene chiuso in casa con la madre, che vive vicino a Bologna (dopo la separazione dal marito in Marocco, ndr). Non a caso era seguito dalla Digos». E lunedì 13 giugno è saltato fuori un filmato tv in cui il ragazzo era in giro con un gruppo di amici tra i locali di Rimini. L’ultima volta è tornato dalla mamma a dicembre, ma in Italia ha passato almeno 60 giorni in varie trasferte proveniente dal Marocco o dall’Inghilterra. Il padre, Mohammed, vive a Casablanca e ha portato il figlio sulla strada radicale dei Tabligh Eddawa, i «testimoni di Geova» dell’Islam duro e puro. «Predicatori estremisti che a Bologna hanno centri in via Zanardi e via Libia» spiega Giovanni Giacalone, analista del jihadismo.
Secondo una fonte di intelligence europea, Zaghba è stato presentato al capo del commando di Londra, Khuram Butt, «dai contatti italiani della rete Al-Muhajiroun fondata dal predicatore Anjem Choudary». Il gruppo estremista è stato messo al bando in Inghilterra, ma ha ancora addentellati in Italia, come Zakaria Mohammed Youbi espulso ai primi di giugno dal Bresciano per attività jihadista. Il «cattivo maestro» Choudary è in prigione in Gran Bretagna, dove sconta una condanna di 5 anni e mezzo come reclutatore del terrore. Fino a inizio 2015 pontificava su La 7 da Londra, giustificando la strage al settimanale satirico Charlie Hebdo e annuciando: «Un giorno Roma sarà nostra. Non stupitevi se anche l’Italia subirà attentati».
Sotto la lente ci sono almeno una ventina di contatti del terrorista italo-marocchino, ma si punta pure sulla pista di uno o più versamenti di denaro via money transfer da cittadini britannici di origine pachistana verso l’Italia. Solo sei mesi fa, il 23 dicembre, la polizia ha ucciso Anis Amri 2 a Sesto San Giovanni, provincia di Milano. Il tunisino che al volante di un camion killer aveva fatto strage al mercatino era in fuga attraverso il nostro Paese. Nel 2001 era sbarcato con un barcone a Lampedusa, per finire subito in carcere dopo aver incendiato il centro di accoglienza. «Uno dei motivi per cui non ci sono stati ancora grossi attacchi da noi è l’arrivo dei migranti» rivela una fonte dell’antiterrorismo. «L’Italia è la porta di ingresso in Europa e a loro va bene: un attentato provocherebbe la chiusura delle frontiere. Meglio che continuino ad arrivare migranti a maggioranza islamica». Un altro investigatore in prima linea conferma che «sui canali dei migranti i terroristi hanno mandato degli esploratori, per fare da apripista agli operativi. Abbiamo sentito chi ha viaggiato lungo la rotta balcanica assieme agli attentatori di Parigi e Bruxelles senza sapere chi fossero veramente». In quattro anni dietro le sbarre Amri si radicalizza. Una volta uscito, va in Germania per unirsi a una cellula salafita e uccidere il 19 dicembre a Berlino 12 persone in nome dell’Isis. Il suo primo possibile «contatto» in Italia a venire individuato, il 24 dicembre, è il tunisino Chebli Sami 3 , fermato a Falconara Marittima vicino ad Ancona e in seguito espulso. Il 13 marzo è espulso un altro tunisino, Hisham Alhaabi. Per l’antiterrorismo risulta «intestatario di una utenza emersa tra i contatti di Anis Amri, quando quest’ultimo, nel giugno 2015, era stato ospitato a casa di Yaakoubi Montasser e della sua compagna ad Aprilia».
Gli ultimi due contatti della rete del killer di Berlino collegati all’Italia sono il marocchino Soufiane Amri 4 e il congolese Lutumba Nkanga 5 , arrestati il 28 aprile per terrorismo grazie all’inchiesta «Transito silente» di Brindisi: il primo, seguace dello Stato islamico, è in contatto con Amri a Berlino, dopo l’espulsione dall’Italia. Della cellula tedesca fa parte pure il congolese, già ospite del Centro di permanenza per rifugiati di Restinco, provincia di Brindisi.
Anche Mohamed Lahaouiej Bouhlel 6 , il macellaio del lungomare di Nizza, che ha fatto fuori 86 persone al volante di un camion, è passato per l’Italia. Nel giugno 2015 è ripreso in un video e identificato dalla polizia a Ventimiglia, mentre partecipa a una manifestazione pro migranti dell’associazione «Au coeur de l’espoir» di Nizza. Il suo complice, il tunisino Chokri Chafoud 7 , che lo aizzava via sms a lanciarsi con il camion sulla folla, ha vissuto per anni a Gravina di Puglia. Un’altra complice, l’albanese Enkeledja Zace, che con il marito ha fornito una pistola al killer di Nizza, spesso in Italia, è stata arrestata nel 2015 dai carabinieri per favoreggiamento all’immigrazione clandestina sempre a Ventimiglia.
Proprio da Bari è passato due volte, l’1 e il 5 agosto 2015, Abdeslam Salah 8 , l’unico terrorista sopravissuto delle cellule di Parigi e Bruxelles in carcere nella capitale francese. Assieme ad Ahmad Dahmani, che verrà arrestato in Turchia una settimana dopo la strage di Parigi per aver fatto i sopralluoghi sugli obiettivi, si imbarca su un traghetto per raggiungere il Pireo e incontrare ad Atene il capo del commando di Parigi Abdelhamid Abaaoud. Il 6 agosto, rientrato a Bari, Salah ripercorre in auto tutta l’Italia, come all’andata, lasciando tracce con la carta di credito. L’ultima volta è un pieno di benzina a Como. Ismael Omar Mostefai, uno dei kamikaze del Bataclan (dove è stata uccisa la veneziana Valeria Solesin) era transitato nel nostro paese nel 2013 da Marsiglia per raggiungere la Siria e arruolarsi nel Califfato.
Pure Khalid el-Bakraoui 9 , il terrorista che si è fatto saltare in aria nella metro di Bruxelles il 22 marzo 2016, ha usato l’Italia come transito. Il 23 luglio 2015 era volato dal Belgio all’aeroporto di Treviso con Ryanair. Poi si è spostato a Venezia alloggiando all’hotel Courtyard by Marriott dell’aeroporto, che costa non meno di 224 euro a notte. Alla fine si è imbarcato su un aereo Volotea per Atene. «Molti terroristi passano per l’Italia settentrionale perché hanno un riferimento specifico fra la provincia di Venezia e quella di Treviso» sostiene Sabrina Magris, esperta del fenomeno jihadista. «Il soggetto non è stato arrestato perché non faceva, in apparenza, nulla di illegale. Si trattava di una sorta di guida spirituale». I complici o fiancheggiatori dei terroristi di Parigi e Bruxelles che hanno avuto a che fare con l’Italia sono personaggi del calibro di Gelel Attar 10 , nato nel 1989 a Castel San Giovanni, provincia di Piacenza. A 15 anni lascia l’Italia per il quartiere islamico di Molenbeek, Bruxelles, dove sono nati e cresciuti i terroristi locali e quelli di Parigi. È fra i primi di Molenbeek ad andare a combattere in Siria. Nel 2013 rientra in Europa e aiuta a pianificare i futuri attacchi. Il 15 gennaio 2016 viene arrestato in Marocco.
Tre giorni dopo l’attentato di Bruxelles, il 25 marzo 2016, finisce in manette in Germania il marocchino Mohammed Lahlaoui 11 che per sette anni ha vissuto a Vestone, nel bresciano, prima di venire espulso. Lahlaoui ha scambiato sms con il kamikaze di Bruxelles, Khalid El Bakraoui, compreso un ultimo messaggio con la parola «fine».
Il falsario che ha fornito documenti contraffatti a tre terroristi di Parigi e Bruxelles, l’algerino Djamal Eddine Ouali 12 , è scappato in macchina dal Belgio in Italia attraverso il Brennero, dove sperava di trovare rifugio. Il 26 marzo 2016 è stato arrestato in provincia di Salerno. «In Italia si possono annidare soggetti pericolosi o terroristi in transito, che poi si macchiano di clamorosi attentati, per ora in altri Paesi europei» spiega a Panorama un’altra fonte in primissima linea nella lotta al terrore. «Un domani, però, potrebbero colpire anche a casa nostra. Forse non c’è una vera e propria rete, ma esiste un humus che consente a elementi jihadisti o latitanti di muoversi liberamente, senza grossi ostacoli».

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29 dicembre 2011 | SkyTG24 | reportage
Almerigo ricordato 25 anni dopo
Con un bel gesto, che sana tante pelose dimenticanze, il presidente del nostro Ordine,Enzo Iacopino, ricorda davanti al premier Mario Monti, Almerigo Grilz primo giornalista italiano caduto su un campo di battaglia dopo la fine della seconda guerra mondiale, il 19 maggio 1987 in Mozambico.

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11 novembre 2008 | Centenario della Federazione della stampa | reportage
A Trieste una targa per Almerigo Grilz
e tutti i caduti sul fronte dell'informazione

Ci sono voluti 21 anni, epiche battaglie a colpi di articoli, proteste, un libro fotografico ed una mostra, ma alla fine anche la "casta" dei giornalisti triestini ricorda Almerigo Grilz. L'11 novembre, nella sala del Consiglio comunale del capoluogo giuliano, ha preso la parola il presidente dell'Ordine dei giornalisti del Friuli-Venezia Giulia, Pietro Villotta. Con un appassionato discorso ha spiegato la scelta di affiggere all'ingresso del palazzo della stampa a Trieste una grande targa in cristallo con i nomi di tutti i giornalisti italiani caduti in guerra, per mano della mafia o del terrorismo dal 1945 a oggi. In rigoroso ordine alfabetico c'era anche quello di Almerigo Grilz, che per anni è stato volutamente dimenticato dai giornalisti triestini, che ricordavano solo i colleghi del capoluogo giuliano uccisi a Mostar e a Mogadiscio. La targa è stata scoperta in occasione della celebrazione del centenario della Federazione nazionale della stampa italiana. Il sindacato unico ha aderito all'iniziativa senza dimostrare grande entusiasmo e non menzionando mai, negli interventi ufficiali, il nome di Grilz, ma va bene lo stesso. Vale la pena dire: "Meglio tardi che mai". E da adesso speriamo veramente di aver voltato pagina sul "buco nero" che ha avvolto per anni Almerigo Grilz, l'inviato ignoto.

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14 maggio 2020 | Tg5 | reportage
Trieste, Lampedusa del Nord Est
Fausto Biloslavo TRIESTE - Il gruppetto è seduto sul bordo della strada asfaltata. Tutti maschi dai vent’anni in su, laceri, sporchi e inzuppati di pioggia sembrano sfiniti, ma chiedono subito “dov’è Trieste?”. Un chilometro più indietro passa il confine con la Slovenia. I migranti illegali sono appena arrivati, dopo giorni di marcia lungo la rotta balcanica. Non sembra il Carso triestino, ma la Bosnia nord occidentale da dove partono per arrivare a piedi in Italia. Scarpe di ginnastica, tute e qualche piumino non hanno neanche uno zainetto. Il più giovane è il capetto della decina di afghani, che abbiamo intercettato prima della polizia. Uno indossa una divisa mimetica probabilmente bosniaca, un altro ha un barbone e sguardo da talebano e la principale preoccupazione è “di non venire deportati” ovvero rimandati indietro. Non sanno che la Slovenia, causa virus, ha sospeso i respingimenti dall’Italia. Di nuovo in marcia i migranti tirano un sospiro di sollievo quando vedono un cartello stradale che indica Trieste. Il capetto alza la mano in segno di vittoria urlando da dove viene: “Afghanistan, Baghlan”, una provincia a nord di Kabul. Il 12 maggio sono arrivati in 160 in poche ore, in gran parte afghani e pachistani, il picco giornaliero dall’inizio dell’anno. La riapertura della rotta balcanica sul fronte del Nord Est è iniziata a fine aprile, in vista della fase 2 dell’emergenza virus. A Trieste sono stati rintracciati una media di 40 migranti al giorno. In Bosnia sarebbero in 7500 pronti a partire verso l’Italia. Il gruppetto di afghani viene preso in carico dai militari del reggimento Piemonte Cavalleria schierato sul confine con un centinaio di uomini per l’emergenza virus. Più avanti sullo stradone di ingresso in città, da dove si vede il capoluogo giuliano, la polizia sta intercettando altri migranti. Le volanti con il lampeggiante acceso “scortano” la colonna che si sta ingrossando con decine di giovani stanchi e affamati. Grazie ad un altoparlante viene spiegato in inglese di stare calmi e dirigersi verso il punto di raccolta sul ciglio della strada in attesa degli autobus per portarli via. Gli agenti con le mascherine controllano per prima cosa con i termometri a distanza la temperatura dei clandestini. Poi li perquisiscono uno ad uno e alla fine distribuiscono le mascherine ai migranti. Alla fine li fanno salire sugli autobus dell’azienda comunale dei trasporti cercando di non riempirli troppo per evitare focolai di contagio. “No virus, no virus” sostiene Rahibullah Sadiqi alzando i pollici verso l’alto in segno di vittoria. L’afghano è partito un anno fa dal suo paese e ha camminato per “dodici giorni dalla Bosnia, attraverso la Croazia e la Slovenia fino all’Italia”. Seduto per terra si è levato le scarpe e mostra i piedi doloranti. “I croati mi hanno rimandato indietro nove volte, ma adesso non c’era polizia e siamo passati tutti” spiega sorridendo dopo aver concluso “il gioco”, come i clandestini chiamano l’ultimo tratto della rotta balcanica. “Abbiamo registrato un crollo degli arrivi in marzo e per gran parte di aprile. Poi un’impennata alla fine dello scorso mese fino a metà maggio. L’impressione è che per i paesi della rotta balcanica nello stesso periodo sia avvenuta la fine del lockdown migratorio. In pratica hanno aperto i rubinetti per scaricare il peso dei flussi sull’Italia e sul Friuli-Venezia Giulia in particolare creando una situazione ingestibile anche dal punto di vista sanitario. E’ inaccettabile” spiega l'assessore regionale alla Sicurezza Pierpaolo Roberti, che punta il dito contro la Slovenia. Lorenzo Tamaro, responsabile provinciale del Sindacato autonomo di polizia, denuncia “la carenza d’organico davanti all’emergenza dell’arrivo in massa di immigrati clandestini. Rinnoviamo l’appello per l’invio di uomini in rinforzo alla Polizia di frontiera”. In aprile circa il 30% dei migranti che stazionavano in Serbia è entrato in Bosnia grazie alla crisi pandemica, che ha distolto uomini ed energie dal controllo dei confini. Nella Bosnia occidentale non ci sono più i campi di raccolta, ma i migranti bivaccano nei boschi e passano più facilmente in Croazia dove la polizia ha dovuto gestire l’emergenza virus e pure un terremoto. Sul Carso anche l’esercito impegnato nell’operazione Strade sicure fa il possibile per tamponare l’arrivo dei migranti intercettai pure con i droni. A Fernetti sul valico con la Slovenia hanno montato un grosso tendone mimetico dove vengono portati i nuovi arrivati per i controlli sanitari. Il personale del 118 entra con le protezioni anti virus proprio per controllare che nessuno mostri i sintomi, come febbre e tosse, di un possibile contagio. Il Sap è preoccupato per l’emergenza sanitaria: “Non abbiamo strutture idonee ad accogliere un numero così elevato di persone. Servono più ambienti per poter isolare “casi sospetti” e non mettere a rischio contagio gli operatori di Polizia. Non siamo nemmeno adeguatamente muniti di mezzi per il trasporto dei migranti con le separazioni previste dall’emergenza virus”. Gli agenti impegnati sul terreno non sono autorizzati a parlare, ma a denti stretti ammettono: “Se va avanti così, in vista della bella stagione, la rotta balcanica rischia di esplodere. Saremo travolti dai migranti”. E Trieste potrebbe trasformarsi nella Lampedusa del Nord Est.

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20 giugno 2017 | WDR | intervento
Italia
Più cittadini italiani con lo ius soli
Estendere la cittadinanza italiana ai bambini figli di stranieri? È la proposta di legge in discussione in Senato in questi giorni. Abbiamo sentito favorevoli e contrari.

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