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Reportage
13 dicembre 2017 - Primo Piano - Libia - Corriere del Ticino
Dentro i gironi infernali libici dove le Ong non arrivano
Fausto Biloslavo “Libertà, libertà” gridano in inglese i dannati rinchiusi nel centro di detenzione di Gharyan, 70 chilometri a sud di Tripoli, infilando disperatamente le braccia fra le sbarre per attirare l’attenzione. I migranti economici, semi nudi, sono un ammasso di carne umana proveniente soprattutto dall’Africa occidentale ed intercettati dalle forze di sicurezza libiche nel loro viaggio verso l’illusorio Eldorado europeo. Un andazzo che va avanti da anni, ma la comunità internazionale sembra svegliarsi solo adesso. Circa 7mila languono in queste condizioni una una ventina di centri, ma molti di più sono nella mani dei trafficanti ammassati in maniera inumana in enormi hangar o venduti come schiavi. L’Onu stima che in Libia si trovano fra i 700mila ed 1 milione di migranti . Per affrontare l’emergenza le Nazioni Unite, la Ue e l’Unione africana si sono incontrati il 30 novembre ad Abijan. Nel documento finale si è stabilito di “intraprendere azioni immediate per combattere” i trafficanti di uomini “dentro e fuori dalla Libia”. Fra le nuove iniziative la possibilità di congelare i conti e sequestrare i beni di chi è sospettato di coinvolgimento nella tratta dei migranti, come si è fatto con i terroristi. Nel documento la comunità internazionale “sottolinea l’imperativa necessità di migliorare le condizioni dei migranti e dei rifugiati in Libia intraprendendo tutte le azioni necessarie per fornire l’assistenza appropriata e facilitare il rimpatrio volontario nei paesi di origine”. Peccato che la comunità internazionale si sia svegliata tardi e solo dopo che il ministro dell’interno italiano, Marco Minniti, è riuscito a tenere a freno la flotta umanitaria delle Ong al largo della Libia e potenziato la Guardia costiera di Tripoli per intercettare i barconi. Il risultato è chiaro: rispetto allo scorso anno gli arrivi in Italia sono diminuiti del 32,9 %. Nel frattempo il quartier generale dell’Onu per la Libia continua ad avere sede a Tunisi per motivi di sicurezza. E solo nell’ultimo anno l’Organizzazione internazionale per le migrazioni è riuscita a rimpatriare a casa loro dalla Libia 13mila migranti. I fondi e gli uomini, però, ancora non bastano e bisogna intervenire a monte garantendo stabilità e sostenibilità economica nei paesi di partenza dei migranti. I profughi in fuga dalla guerra, via Libia, sono sempre meno. Fino a dicembre la prima nazionalità dei 117.154 sbarcati in Italia, che poi proseguono verso altri paese europei è quella proveniente dalla Nigeria, dove la minaccia del terrore di Boko Haram è stata rintuzzata e risulta limitata territorialmente in un angolo settentrionale del paese. In pratica si tratta in gran parte di migranti economici come quelli provenienti da Guinea, Costa d’Avorio e Bangladesh che seguono i nigeriani nella classifica.  La Commissione europea ha lanciato un piano di investimenti strategici per l’Africa che dovrebbe arrivare a 44 miliardi di euro. Una missione quasi impossibile se i soldi finiranno nei rivoli della corruzione e se non cambierà il sistema politico, spesso “marcio”, di tanti paesi africani.  L’annuncio dell’Unione africana, al vertice di Abijan, di attivarsi “immediatamente” per rimpatriare 3800 migranti dalla Libia assomiglia alla classica goccia nel’oceano. Tragicomico l’appello dell’Unhcr dell’11 dicembre, la costola dell’Onu per i rifugiati, per “ricollocare” appena 1300 aventi diritto all’asilo individuati in Libia. I talebani dell’accoglienza a cominciare dalle Ong che si strappano le vesti per le condizioni dei migranti in Libia non si fanno vedere nei campi di detenzione ad alleviare le loro pene. Il sospetto è che faccia comodo utilizzare come grimaldello propagandistico il girone libico dei dannati dell’emigrazione per continuare a far arrivare gente in Europa in maniera indiscriminata.  Sul terreno, da dietro le sbarre del centro di Garyan, i migranti sventolano i fogliettini con i numeri di registrazione delle ambasciate, che li hanno riconosciuti come loro cittadini. Poi la pratica passa all’Oim, costola delle Nazioni Unite, che ha il compito di rimpatriarli. Il problema è che il ritorno a casa rimane troppo lento, i numeri sono limitati e non riguardano la grande massa di migranti nelle grinfie dei trafficanti. “Non so quante richieste di aiuto abbiamo inviato alla Ue e alle organizzazioni internazionali, ma è arrivato poco o nulla. Il budget a disposizione per i pasti è di 1 dollaro ed un quarto a migrante. Una miseria ed il fornitore non viene pagato da 14 mesi” denunciava senza peli sulla lingua all’inizio dell’inverno il colonnello Bahlul Shanana, che comanda il centro di Garyan. Dai dossier con le deposizioni dei migranti si scopre che molti bengalesi arrivano comodamente in aereo da Dacca via Dubai, Turchia o Sudan fino all’aeroporto Mittiga di Tripoli grazie a finti contratti di lavoro in Libia. Il costo del viaggio compreso il barcone per l’Italia è di 6000 €. Nel centro di detenzione di Triq al-Siqqa, il più grande della capitale, simile ad un girone dantesco, sono rinchiusi un migliaio di migranti. Alcuni attendono il rimpatrio da 1 anno e mezzo in un gabbione. E c’è anche il problema dei sospetti jihadisti marocchini: “L’intelligence dell’ambasciata mi ha detto che devono fare controlli minuziosi - spiega un ufficiale del ministero dell’Interno libico - Numerosi loro connazionali combattevano a Sirte con lo Stato islamico e adesso vogliono infiltrarsi in Europa in mezzo ai migranti”. Il responsabile di Triq al-Siqqa, maggiore Abdulnasser Hazam si scagliava, poco prima del vertice di Abijan contro “le visite al centro di ministri e delegazioni europee, che promettono di tutto, ma poi non cambia nulla. Gli aiuti sono minimi”. I nuovi arrivati, appena intercettati al largo della Libia e riportati indietro dalla Gaurdia costiera di Tripoli raccontano tutti la stessa storia: “I trafficanti, prima di imbarcarci sui gommoni ci rassicurano che dopo poche ore di navigazione arrivano le navi a prenderci per portarci in Italia”.  Uno dei dannati nella penombra di un camerino mi mostra delle cicatrici sulle braccia e sussurra: “Guarda cosa mi hanno fatto i libici. Questa è tortura”. Solitamente sono i trafficanti che si accaniscono sulla merce umana per ottenere più soldi dalle famiglie dei migranti.  Su Facebook è stato scoperto un orribile video di 260 migranti somali ed etiopi torturati per costringere i parenti a pagare. “Mi hanno rotto i denti ed una mano - si dispera un giovane in ostaggio - Sono qui da 11 mesi e vogliono 8mila dollari per lasciarmi andare”. I video vengono inviati via Whatsapp sui cellulari dei familiari. Facebook è anche il veicolo per promuovere il viaggio con tanto di tariffari low cost e punti di imbarco verso l’Italia. La sospetta Onlus migrace.org avvisava via twitter sui costi della traversata a persona: “Tariffe del traffico del 17 giugno (da Sabrata verso nord). Gommoni 300 $, barconi in legno 500 $. Note: il prezzo non include il giubbotto di salvataggio”.   L’Oim ha scoperto, ben prima dell’inchiesta della Cnn, il mercato degli schiavi nel sud del paese e nel confinante Niger, vicino alla frontiera. “I migranti sub sahariani vengono venduti e comprati dai libici” hanno denunciato, inascoltati. Gli uomini sono costretti ai lavori forzati e le donne diventano schiave del sesso fino a quando non arrivano i soldi dei familiari per “riscattarli”. Chi non riesce a pagare viene ucciso o bruciato vivo dai moderni schiavisti per dare un esempio, come è accaduto questa estate a due uomini ed una donna a Bani Walid, città di smistamento dei migranti, dove nessuna organizzazione internazionale mette piede. IL DUBBIO BARCHE UMANITARIE COME CALAMITE PER I MIGRANTI Fausto Biloslavo “Le navi delle Ong fanno da calamita ai flussi migratori. Sono in contatto con i trafficanti, se non collusi. Quando pattugliamo non parte nessuno. Appena ce ne andiamo i barconi prendono il mare verso i natanti umanitari scortati dagli scafisti” denuncia il commodoro Ayoub Omr Ghasem, portavoce della guardia costiera libica. Divisa bianca da ufficiale di Marina e baffoni da lupo di mare accusa i “buoni” di avere “interessi non solo umanitari: più migranti recuperano in mare, più donazioni raccolgono oltre ai fondi governativi europei”. Un’inchiesta italiana sulle Ong aperta dalla procura di Trapani ha, però, documentato pure “una situazione di grave collusione tra singole unità della Guardia costiera ed i trafficanti di esseri umani”. Sempre più foto, filmati e testimonianza che stanno venendo alla luce dimostrano il ruolo ambiguo delle Ong. Le Organizzazioni umanitarie tedesche, come Sea Watch, sono le più estremiste. Il 10 maggio hanno cercato di tagliare la rotta di una motovedetta della Guardia costiera accusando i libici di volerli speronare. L’obiettivo era non farli arrivare su un barcone con 493 migranti marocchini, sudanesi, pachistani, bengalesi ed un solo siriano, che era stato portato vicino alla nave della Ong dai trafficanti. Poi fuggiti con le moto d’acqua appena hanno visto i libici. Un altro filmato girato in giugno da bordo di uno dei gommoni di salvataggio di nave Vos hestia riprende in primo piano un grande barcone azzurro stracolmo di migranti. Il mare è piatto, nessun pericolo. Accanto al barcone si notano perfettamente un paio di natanti più piccoli con a bordo gli scafisti che hanno accompagnato i migranti fin davanti alla nave di Save the children. I figuri attendono di recuperare il barcone o il motore. L’aspetto più incredibile è che uno di questi sale a bordo del barcone e con un tubo di gomma ordina ai migranti cosa fare menando frustate. Il tutto avviene sotto gli occhi della squadra di recupero di Save the children sul gommone a pochi metri di distanza. Nessuno sembra porsi il problema di fare da taxi del mare dei trafficanti libici. Il 26 giugno un agente sotto copertura italiano infiltrato sulla nave Vos Hestia dell’organizzazione umanitaria Save the children, al largo della Libia, fotografa in primo piano tre trafficanti di esseri umani giunti sotto bordo con un gommone. Gli scafisti avvisano in arabo il personale della Ong di tenersi pronti perché “sta arrivando gente”. Dopo un po’ si materializzano diversi barconi con centinaia di migranti recuperati dalle navi umanitarie e da un’unità della nostra guardia costiera italiana. A bordo della nave Aquarius di Sos Mediterranee, che opera con Medici senza frontiere, alla domanda dei giornalisti una volontaria francese definisce “pescatori, stanno pescando” gli scafisti che accompagnano i migranti con dei barchini. Il personale umanitario gira sempre delle riprese strette, per non documentare la consegna sotto bordo ed i buoni rapporti con i “facilitatori” dei trafficanti. Talmente buoni, che al riparo delle telecamere vengono restituiti dei barconi agli scafisti libici, che poi li riutilizzano per i prossimi carichi di merce umana. Non solo: ai migranti recuperati vengono fatti indossare i giubbotti salvagente di Msf. Non sarebbe necessario perchè hanno già i giubbotti, ma quelli affittati dai trafficanti vengono lasciati a bordo dei gommoni dagli stessi umanitari. In questa maniera i trafficanti potranno cederli al prossimo carico facendo pagare 150 euro a testa. Dalla scorsa estate le Ong sono state costrette dal governo italiano a firmare  un codice di condotta, che regolamenta il Far west dei soccorsi al largo della Libia con l’obiettivo, in parte raggiunto, di diminuire i flussi. Le navi delle Organizzazioni umanitarie, però, continuano a fare da “esca” in una specie di battaglia navale con la Guardia costiera libica appoggiata dall’Italia, che punta ad intercettare i barconi e portare indietro i migranti. Nel braccio di ferro in alto mare è fondamentale la “disinformazia” umanitaria che presenta sempre i libici come “cattivi”. Durante uno degli ultimi episodi eclatanti, il 6 novembre, è chiaro che l’arrivo sulla scena dell’intervento della Guardia costiera di Tripoli della nave di Sea Watch provoca la reazione dei migranti. Dal gommone già tirato sotto bordo dai libici si tuffano in mare per raggiungere i soccorritori umanitari, che li portano in Italia. I montaggi ad hoc dei video girati dalla Ong, andati in onda sulle tv italiane, denunciano l’annegamento di migranti in realtà saliti a bordo della nave umanitaria o riapparsi vivi e vegeti nel centro di detenzione di Tajura vicino a Tripoli. Sea Watch denuncia che “circa 50 persone di questa barca di migranti sono morte” ed i politici italiani, talebani dell’accoglienza, parlano di “strage”. In realtà su 120 migranti a bordo sono stati recuperati 5 cadaveri probabilmente affogati nel tentativo di raggiungere gli umanitari che facevano da esca  e nessuno risulta disperso.   L’ultima scoperta della procura di Trapani è un tariffario dei soccorsi previsto dall’armatore per gli equipaggi delle navi Vos Hestia di Save the children e Vos Prudence di Medici senza frontiere. Oltre al salario mensile veniva garantito un premio fisso da 800 a 200 euro, a seconda della qualifica oltre a 50 euro a barcone intercettato. Un vero e proprio bonus “umanitario” per incentivare il recupero dei migranti partiti dalla Libia. LE MILIZIE DALLA LOTTA ALLO STATO ISLAMICO AL CONTROLLO DELLE COSTE Fausto Biloslavo Le fiammelle del gas del grande impianto di Mellita si stagliano a poche centinaia di metri sulla costa della Tripolitania ad un passo dal confine tunisino. “Garantiamo la sicurezza esterna dell’impianto. Abbiamo combattuto prima lo Stato islamico a Sabrata e adesso fermiamo i migranti” spiega con un sorrisetto furbo Bashir Lahmoudi, in mimetica e kalashnikov al posto di blocco di Mellita, da dove arriva il gas libico diretto in Sicilia. Il miliziano ed i suoi uomini fanno parte della Brigata 48, una delle formazioni paramilitari più potenti che comandavano a Sabrata. Pochi chilometri più ad est, la città costiera con le antiche vestigia romane, era una degli hub degli imbarchi dei migranti verso l’Europa fino allo scorso agosto. Poi è intervenuta l’intelligence italiana sotto traccia ed il governo di Roma sul piano politico. In cambio della promessa dell’amnistia e di un fiume di soldi alla municipalità di Sabrata ed ai miliziani, il loro capo, Ahmed al Dabbashi, soprannominato Al Ammu, lo “zio”, si è convertito. Da super boss dei trafficanti ha ordinato alla Brigata 48 e alla milizia martire Anas Al-Dabbashi, dedicata al cugino morto nella rivolta contro Gheddafi, di fermare i barconi.  In settembre qualcosa è andato storto ed altre milizie di Sabrata hanno cacciato lo “zio” ed i suoi dopo una dura battaglia. L’accordo con l’Italia ha retto grazie alle mazzette pagate ai capi clan ed ai 200 milioni di euro promessi dall’Europa a 14 comuni libici, compresa Sabrata, per progetti territoriali proposti dai sindaci. Le città, dalla costa al confine meridionale, sono quelle lungo il tragitto dei migranti. “E’ molto semplice: se le milizie ordinano agli scafisti di non partire loro fermano i gommoni. - spiega una fonte di Sabrata - Se arrivano aiuti e soldi dal governo di Tripoli attraverso l’Italia o l’Europa per i progetti economici l’accordo regge. Altrimenti salta e riprendono le partenze”. In realtà i migranti si stanno imbarcando da altri porti rimasti tagliati fuori dall’accordo o controllati da milizie poco malleabili. A Tajura, vicino a Tripoli e Garabulli, 66 chilometri ad est della capitale verso la città-stato di Misurata continuano le partenze.  Le navi delle Ong al largo ci sono ancora, ma ridotte da 12 a 3-4 e la Guardia costiera libica, con l’aiuto e addestramento italiano è sempre più attiva. Anche se delle 4 motovedette già consegnate ne funzionano la metà e altre sei, che dovrebbero arrivare entro fine anno sono ancora nel cantiere di Biserta in Tunisia.  Per non parlare delle condizioni miserevoli dei marinai libici. “I miei uomini hanno una paga di 800 dinari (102 franchi al cambio in nero) che possono riscuotere dopo lunghe file davanti alle banche ogni tre mesi, se va bene. Ovvio che mantengono la famiglia con un secondo lavoro. In alcune missioni non avevamo i viveri e siamo stati costretti a fare una colletta per mangiare” spiega il tenente di vascello Nasser Al Kamoudy. La Marina militare italiana ha attivato nella base navale di Abu Sitta a Tripoli una “cabina di regia” con i libici per fermare i flussi e combattere i trafficanti. L’obiettivo è mettere a disposizione le informazioni di tutti i sensori italiani, dai radar ai droni fino ai sistemi di ascolto della flotta nel Mediterraneo, per individuare le partenze dei barconi. Il problema è l’effetto “imbuto” che si sta creando a causa della riduzione delle partenze. A sud di Sabrata, attorno alla snodo del traffico di esseri umani di Al Sooref rimangono in attesa 16mila migranti tenuti come animali dai trafficanti. A Bani Walid, 170 chilometri a sud di Tripoli, sono ammassati in enormi hangar migliaia di persone giunte da Sebha e Kufra i punti d’ingresso nel deserto meridionale. “I camion arrivano e scaricano esseri umani come se fossero merce” racconta una fonte libica. Uno dei piani europei fortemente voluto dall’Italia e dalla Francia, che mantiene la base militare Madama in Niger, vicino al confine, è di intercettare il traffico di migranti sulla porosa e desertica frontiera meridionale, porta d’ingresso in Libia. Oltre all’invio di truppe per  addestrare la polizia tribale, come guardia di confine, l’Europa dovrebbe finanziare un progetto di sorveglianza elettronica già pronto ai tempi di Gheddafi, ma abortito a causa della rivolta che ha deposto il colonnello. Trecento milioni di euro, in gran parte già pagati, per un sistema di radar, sensori ad infrarossi, telecamere e droni per individuare e bloccare le vie del traffico verso la costa e l’Europa.

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09 marzo 2011 | TG4 | reportage
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09 aprile 2011 | TG5 | reportage
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22 marzo 2011 | TG5 | reportage
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09 marzo 2011 | Panorama | intervento
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10 marzo 2011 | Panorama | intervento
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26 aprile 2011 | Radio 101 | intervento
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Con Luxuria bomba e non bomba
Il governo italiano, dopo una telefonata fra il presidente americano Barack Obama ed il premier Silvio Berlusconi, annuncia che cominciamo a colpire nuovi obiettivi di Gheddafi. I giornali titolano: "Bombardiamo la Libia". E prima cosa facevamo? Scherzavamo con 160 missioni aeree dal 17 marzo?

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18 marzo 2011 | Radio Capodistria | intervento
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IL vaso di pandora
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26 agosto 2011 | Radio Città Futura | intervento
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I giornalisti italiani rapiti a Tripoli


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