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Fatti
24 maggio 2018 - Reportage - Italia - Panorama
Il miglior amico del soldato

Due blindati erano finiti in un’imboscata nella zona di Herat. Sono arrivato con Bordeaux per aprire la strada ai soccorsi controllando che non ci fossero trappole esplosive. Un razzo Rpg lanciato dai talebani era entrato dal parabrezza e uscito dal finestrino di uno dei Lince, per miracolo senza esplodere, ma nello scontro a fuoco due uomini sono rimasti feriti. Uno rischiava di perdere un braccio. Gli insorti erano nascosti fra gli alberi a 200 metri. Con Bordeaux siamo avanzati per primi per tirare fuori i nostri dall’imboscata». Giuseppe Esposito è un maresciallo capo del gruppo cinofilo di Grosseto. Sta descrivendo un agguato in Afghanistan nel 2008. E ripete il nome Bordeaux. Nome strano per un commilitone italiano. Infatti è un cane. 

Esposito sulla mimetica porta l’insegna della particolare unità di soldati a quattro zampe: una testa di cane, il gladio, la fiammata dei guastatori e l’ala di un paracadute. La loro base è il Centro militare veterinario di Grosseto nato con regio decreto nel 1870 per i reparti a cavallo e poi i muli degli alpini. Oggi si sono aggiunti 130 cani pastore tedesco e belga malinois addestrati «per incrementare i livelli di sicurezza dei contingenti all’estero» spiega il comandante, colonnello Simone Siena. Dopo 10 mesi di corso fiutano trappole esplosive, autobombe, ordigni o armi nascoste e individuano elementi ostili nei pattugliamenti prima che vengano visti o sentiti dagli umani.

«Venus e io siamo le migliori amiche» osserva il caporal maggiore scelto Daniela Napolitano riferendosi al suo pastore tedesco di otto anni. Occhi splendidi e capelli raccolti, è l’unica donna operativa, che salva vite in prima linea con l’aiuto di un cane, come è capitato a Shindad, in Afghanistan, nel 2012. «Sulla strada c’era una buca sull’asfalto» racconta. « Sono scesa dal blindato con Venus piazzandomi davanti alla colonna. Lei ha raggiunto la buca e scodinzolando mi ha fatto capire subito che c’era qualcosa. Poi si è infilata dentro mettendosi seduta. Il segnale che aveva annusato dell’esplosivo». L’intervento degli artificieri ha scoperto una tanica con una granata di artiglieria collegata a un filo elettrico che arrivava al margine della strada. Una trappola esplosiva da innescare al passaggio del primo blindato. 

Venus dimostra la sua bravura sulla striscia di sabbia per l’addestramento nella caserma di Grosseto. Il cane scopre grazie all’olfatto una finta mina anti uomo avanzando e spostando il collo a ventaglio come un metal detector. «Viviamo assieme da quando aveva 45 giorni» spiega la donna soldato. «Ci siamo riscaldati nello stesso sacco a pelo durante l’addestramento e se torno a casa a Napoli senza di lei i miei genitori, che hanno adottato Venus, non mi fanno entrare».

Al momento sono oltre una decina i cani impegnati nelle missioni all’estero in Kosovo, Afghanistan, Libano, Libia, Iraq. Vito è un veterano e sta partendo per Herat con il suo operatore, il sergente maggiore Vincenzo Lo Giudice, alpino paracadutista. Meglio non accarezzare il pastore tedesco «Vito è un po’ cafone, simile a un bambino manesco» spiega il sergente. In prima linea, però, il suo cane ha una flemma incredibile. «In Afghanistan eravamo dentro un Lince mentre gli insorti ci sparavano» ricorda l’alpino parà. «Un caos infernale, ma Vito era tranquillo. Al massimo si infastidiva per i bossoli roventi che gli cadevano addosso dal mitragliere fuori dalla botola del blindato che rispondeva al fuoco».

Nel centro di Grosseto i cani vengono addestrati fin da cuccioli a muoversi fra le macerie o su percorsi di guerra con i militari che sparano a salve per abituarli al rumore della guerra. «L’addestramento si basa sul gioco con la classica pallina da cercare, che in teatro operativo diventa esplosivo» spiega il sergente maggiore Alessandro Parco, che fa nascere i cuccioli. Il 50 per cento viene scartato durante la selezione. I Rambo a quattro zampe devono essere perfetti per ottenere «la capacità combat» compreso il trasporto in elicottero, sui gommoni degli incursori, le tecniche di movimento tattico in ambiente urbano e la vigilanza di aree sensibili. A Grosseto li addestrano addirittura a nuotare in una piscina speciale con tapis roulant. Il segreto per addestrare un perfetto cane soldato è il binomio giusto con l’uomo. 

«Bordeaux è nato nel 2006 e mio figlio nel 2004. Fin da piccolo litigavano per il pupazzetto o il giocattolo. Il cane viene in vacanza con noi e fa parte della famiglia» sottolinea il maresciallo Esposito. I militari si portano l’animale a casa e la simbiosi è tale che «dopo aver rischiato la vita assieme in tanti missioni, Gamain aveva portato pure le fedi all’altare quando mi sono sposato» racconta il caporale maggiore Daniele Frau. 

Sardo, paracadutista, è appena rientrato dal Libano, dove Jimmy Gamain, il suo cane soldato di 11 anni, è morto in missione per un malore mentre controllava i mezzi che entravano nella base dei caschi blu a Shama. «È come se avessi perso uno di famiglia» spiega. «Vivevamo assieme 24 ore al giorno. Gli parlavo e mi capiva perfettamente». Jimmy che si faceva fotografare sul cofano di un blindato Lince, come un modello a quattro zampe, è caduto facendo il suo dovere. Per questo motivo è nata l’idea di cremarlo e realizzare un memoriale nella caserma di Grosseto dove ospitare le ceneri di tutti i cani soldato che hanno salvato vite nelle missioni all’estero. 

Una volta riformati, i soldati a quattro zampe vengono quasi sempre ceduti ai loro operatori. Quando se ne vanno, i militari non si distaccano dal miglior amico dell’uomo. Ombra, classe 2003, era una leggenda ed è stata cremata. Le sue ceneri riposano in una cassetta in legno dentro una teca con la piastrina, il guinzaglio, la pallina che è servita per insegnarle a scovare gli esplosivi. Oltre alle decorazioni delle tante missioni e la foto. 

Basco, un pastore olandese, che ha scoperto un’autobomba a Kabul, è morto il 20 aprile, dopo un’onorata carriera, fra le braccia del suo conducente. Il gruppo cinofilo si è subito mobilitato via Whatsapp: «Marco ho saputo di Basco…Mi dispiace tantissimo…Un altro pezzetto di storia del gruppo è volato via. Ti sono vicino! Peppe Esposito». La risposta non lascia dubbi sul profondo legame fra uomo e animale: «È andato via e ha lasciato che fossi io a decidere l’ora. Ho preferito passare con lui questo ultimo tramonto dopo 15 anni 6 mesi e 5 giorni. Ringrazio l’Esercito che mi ha dato un gran cane e con lui tanti ricordi».

Bordeaux, ancora in servizio, è stato «decorato» in Libano. Il cane soldato ha partecipato alla parata finale con i nostri mille uomini schierati e il fazzoletto blu dell’Onu attorno al collo ricevendo la medaglia per avere partecipato alla missione. «In zona di operazioni i comandi vocali sono pochi: il nome, vieni, ma per il resto l’animale segue i movimenti del tuo corpo» spiega il maresciallo Esposito. «Prima lancio il cane sull’obiettivo. Se mi sposto a destra lui va a destra e viceversa. Se avanzo, lui prosegue per altri 5-10 metri. Se mi metto seduto torna indietro». Al fronte, uomo e cane dividono tutto: dall’ultima bottiglietta di acqua alle razioni di combattimento e pure la branda.

I cani soldato mettono in salvo anche i giornalisti, come è capitato a chi scrive nel 2003, in Afghanistan, durante un reportage per Panorama. I talebani stavano lanciando dei razzi su base Salerno a Khowst, vicino al confine pachistano dov’erano dispiegati i paracadutisti della Folgore. Il fragore della prima esplosione seguito dall’ululare della sirena d’allarme aveva colto un po’ tutti di sorpresa. Appena arrivato non avevo individuato i rifugi. Alex, un pastore tedesco addestrato a Grosseto, zoppicava a causa di una zampa ferita, ma quando la sirena è partita si è fermato un attimo squadrandomi, come se capisse che non sapevo dove andare. E poi si è lanciato verso il bunker più vicino indicandomi la strada.

Tazmania è una bella femmina di nove anni docile e giocherellona. Assieme al caporal maggiore scelto, Piero Sanese, ha compiuto quattro missioni. L’ultima lo scorso anno alla diga di Mosul, in Iraq, presidiata dagli italiani mentre si combatteva a pochi chilometri per sconfiggere l’Isis nella capitale del Califfato. A casa sono in tre: il caporale maggiore, la sua compagna e Tazmania. «Se qualcuno è girato di spalle» spiega Sanese «pensa che io parli con una persone e invece è il cane». Tazmania è diventata famosa a Herat per aver fatto gli auguri di Natale agli italiani abbaiando davanti alle telecamere. Nella valle afghana del Gulistan, dove i nostri hanno subito imboscate e perso uomini, Tazmania è stata attivata con l’ordine in codice via radio K9, durante una ricognizione con i paracadutisti. «Il nostro battesimo del fuoco» spiega Sanese. «Ero un po’ teso, ma dovevo calmarmi per non trasmettere paura o emozione al cane che assorbe tutto». Attorno solo deserto e lungo il percorso un muretto a secco che destava sospetti. «L’ho indirizzata dicendo “cerca” e lei è partita. In due minuti ha trovato qualcosa. E si è seduta sulle zampe posteriori guardando fisso il punto pericoloso. C’era un ordigno».  

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14 maggio 2020 | Tg5 | reportage
Trieste, Lampedusa del Nord Est
Fausto Biloslavo TRIESTE - Il gruppetto è seduto sul bordo della strada asfaltata. Tutti maschi dai vent’anni in su, laceri, sporchi e inzuppati di pioggia sembrano sfiniti, ma chiedono subito “dov’è Trieste?”. Un chilometro più indietro passa il confine con la Slovenia. I migranti illegali sono appena arrivati, dopo giorni di marcia lungo la rotta balcanica. Non sembra il Carso triestino, ma la Bosnia nord occidentale da dove partono per arrivare a piedi in Italia. Scarpe di ginnastica, tute e qualche piumino non hanno neanche uno zainetto. Il più giovane è il capetto della decina di afghani, che abbiamo intercettato prima della polizia. Uno indossa una divisa mimetica probabilmente bosniaca, un altro ha un barbone e sguardo da talebano e la principale preoccupazione è “di non venire deportati” ovvero rimandati indietro. Non sanno che la Slovenia, causa virus, ha sospeso i respingimenti dall’Italia. Di nuovo in marcia i migranti tirano un sospiro di sollievo quando vedono un cartello stradale che indica Trieste. Il capetto alza la mano in segno di vittoria urlando da dove viene: “Afghanistan, Baghlan”, una provincia a nord di Kabul. Il 12 maggio sono arrivati in 160 in poche ore, in gran parte afghani e pachistani, il picco giornaliero dall’inizio dell’anno. La riapertura della rotta balcanica sul fronte del Nord Est è iniziata a fine aprile, in vista della fase 2 dell’emergenza virus. A Trieste sono stati rintracciati una media di 40 migranti al giorno. In Bosnia sarebbero in 7500 pronti a partire verso l’Italia. Il gruppetto di afghani viene preso in carico dai militari del reggimento Piemonte Cavalleria schierato sul confine con un centinaio di uomini per l’emergenza virus. Più avanti sullo stradone di ingresso in città, da dove si vede il capoluogo giuliano, la polizia sta intercettando altri migranti. Le volanti con il lampeggiante acceso “scortano” la colonna che si sta ingrossando con decine di giovani stanchi e affamati. Grazie ad un altoparlante viene spiegato in inglese di stare calmi e dirigersi verso il punto di raccolta sul ciglio della strada in attesa degli autobus per portarli via. Gli agenti con le mascherine controllano per prima cosa con i termometri a distanza la temperatura dei clandestini. Poi li perquisiscono uno ad uno e alla fine distribuiscono le mascherine ai migranti. Alla fine li fanno salire sugli autobus dell’azienda comunale dei trasporti cercando di non riempirli troppo per evitare focolai di contagio. “No virus, no virus” sostiene Rahibullah Sadiqi alzando i pollici verso l’alto in segno di vittoria. L’afghano è partito un anno fa dal suo paese e ha camminato per “dodici giorni dalla Bosnia, attraverso la Croazia e la Slovenia fino all’Italia”. Seduto per terra si è levato le scarpe e mostra i piedi doloranti. “I croati mi hanno rimandato indietro nove volte, ma adesso non c’era polizia e siamo passati tutti” spiega sorridendo dopo aver concluso “il gioco”, come i clandestini chiamano l’ultimo tratto della rotta balcanica. “Abbiamo registrato un crollo degli arrivi in marzo e per gran parte di aprile. Poi un’impennata alla fine dello scorso mese fino a metà maggio. L’impressione è che per i paesi della rotta balcanica nello stesso periodo sia avvenuta la fine del lockdown migratorio. In pratica hanno aperto i rubinetti per scaricare il peso dei flussi sull’Italia e sul Friuli-Venezia Giulia in particolare creando una situazione ingestibile anche dal punto di vista sanitario. E’ inaccettabile” spiega l'assessore regionale alla Sicurezza Pierpaolo Roberti, che punta il dito contro la Slovenia. Lorenzo Tamaro, responsabile provinciale del Sindacato autonomo di polizia, denuncia “la carenza d’organico davanti all’emergenza dell’arrivo in massa di immigrati clandestini. Rinnoviamo l’appello per l’invio di uomini in rinforzo alla Polizia di frontiera”. In aprile circa il 30% dei migranti che stazionavano in Serbia è entrato in Bosnia grazie alla crisi pandemica, che ha distolto uomini ed energie dal controllo dei confini. Nella Bosnia occidentale non ci sono più i campi di raccolta, ma i migranti bivaccano nei boschi e passano più facilmente in Croazia dove la polizia ha dovuto gestire l’emergenza virus e pure un terremoto. Sul Carso anche l’esercito impegnato nell’operazione Strade sicure fa il possibile per tamponare l’arrivo dei migranti intercettai pure con i droni. A Fernetti sul valico con la Slovenia hanno montato un grosso tendone mimetico dove vengono portati i nuovi arrivati per i controlli sanitari. Il personale del 118 entra con le protezioni anti virus proprio per controllare che nessuno mostri i sintomi, come febbre e tosse, di un possibile contagio. Il Sap è preoccupato per l’emergenza sanitaria: “Non abbiamo strutture idonee ad accogliere un numero così elevato di persone. Servono più ambienti per poter isolare “casi sospetti” e non mettere a rischio contagio gli operatori di Polizia. Non siamo nemmeno adeguatamente muniti di mezzi per il trasporto dei migranti con le separazioni previste dall’emergenza virus”. Gli agenti impegnati sul terreno non sono autorizzati a parlare, ma a denti stretti ammettono: “Se va avanti così, in vista della bella stagione, la rotta balcanica rischia di esplodere. Saremo travolti dai migranti”. E Trieste potrebbe trasformarsi nella Lampedusa del Nord Est.

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31 ottobre 2021 | Quarta repubblica | reportage
No vax scontri al porto
I primi lacrimogeni rimbalzano sull'asfalto e arditi No Pass cercano di ributtarli verso il cordone dei carabinieri che sta avanzando per sgomberare il varco numero 4 del porto di Trieste. I manifestanti urlano di tutto «merde, vergogna» cercando pietre e bottiglie da lanciare contro le forze dell'ordine. Un attivista ingaggia lo scontro impossibile e viene travolto dalle manganellate. Una volta crollato a terra lo trascinano via oltre il loro cordone. Scene da battaglia urbana, il capoluogo giuliano non le vedeva da decenni. Portuali e No Pass presidiavano da venerdì l'ingresso più importante dello scalo per protestare contro l'introduzione obbligatoria del lasciapassare verde. In realtà i portuali, dopo varie spaccature, sono solo una trentina. Gli altri, che arriveranno fino a 1.500, sono antagonisti e anarchici, che vogliono la linea dura, molta gente venuta da fuori, più estremisti di destra. Alle 9 arrivano in massa le forze dell'ordine con camion-idranti e schiere di agenti in tenuta antisommossa. Una colonna blu che arriva da dentro il porto fino alla sbarra dell'ingresso. «Lo scalo è porto franco. Non potevano farlo. È una violazione del trattato pace (dello scorso secolo, nda)» tuona Stefano Puzzer detto Ciccio, il capopopolo dei portuali. Armati di pettorina gialla sono loro che si schierano in prima linea seduti a terra davanti ai cordoni di polizia. La resistenza è passiva e gli agenti usano gli idranti per cercare di far sloggiare la fila di portuali. Uno di loro viene preso in pieno da un getto d'acqua e cade a terra battendo la testa. Gli altri lo portano via a braccia. Un gruppo probabilmente buddista prega per evitare lo sgombero. Una signora si avvicina a mani giunte ai poliziotti implorando di retrocedere, ma altri sono più aggressivi e partono valanghe di insulti. Gli agenti avanzano al passo, metro dopo metro. I portuali fanno da cuscinetto per tentare di evitare incidenti più gravi convincendo la massa dei No Pass, che nulla hanno a che fare con lo scalo giuliano, di indietreggiare con calma. Una donna alza le mani cercando di fermare i poliziotti, altri fanno muro e la tensione sale alimentata dal getto degli idranti. «Guardateci siamo fascisti?» urla un militante ai poliziotti. Il nocciolo duro dell'estrema sinistra seguito da gran parte della piazza non vuole andarsene dal porto. Quando la trattativa con il capo della Digos fallisce la situazione degenera in scontro aperto. Diego, un cuoco No Pass, denuncia: «Hanno preso un mio amico, Vittorio, per i capelli, assestandogli una manganellata in faccia». Le forze dell'ordine sgomberano il valico, ma sul grande viale a ridosso scoppia la guerriglia. «Era gente pacifica che non ha alzato un dito - sbotta Puzzer - È un attacco squadrista». I più giovani sono scatenati e spostano i cassonetti dell'immondizia per bloccare la strada scatenando altre cariche degli agenti. Donne per nulla intimorite urlano «vergognatevi» ai carabinieri, che rimangono impassibili. In rete cominciano a venire pubblicati post terribili rivolti agli agenti: «Avete i giorni contati. Se sai dove vivono questi poliziotti vai a ucciderli».Non a caso interviene anche il presidente Sergio Mattarella: «Sorprende e addolora che proprio adesso, in cui vediamo una ripresa incoraggiante esplodano fenomeni di aggressiva contestazione». Uno dei portuali ammette: "Avevamo detto ai No Pass di indietreggiare quando le forze dell'ordine avanzavano ma non ci hanno ascoltati. Così la manifestazione pacifica è stata rovinata». Puzzer raduna le «truppe» e i rinforzi, 3mila persone, in piazza Unità d'Italia. E prende le distanze dagli oltranzisti: «Ci sono gruppi che non c'entrano con noi al porto che si stanno scontrando con le forze dell'ordine». Non è finita, oltre 100 irriducibili si scatenano nel quartiere di San Vito. E riescono a bloccare decine di camion diretti allo scalo con cassonetti dati alle fiamme in mezzo alla strada. Molti sono vestiti di nero con il volto coperto simili ai black bloc. La battaglia sul fronte del porto continua fino a sera.

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05 aprile 2020 | Tg5 | reportage
Virus, il fronte che resiste in Friuli-Venezia Giulia
Fausto Biloslavo TRIESTE - “Anche noi abbiamo paura. E’ un momento difficile per tutti, ma dobbiamo fare il nostro dovere con la maggiore dedizione possibile” spiega Demis Pizzolitto, veterano delle ambulanze del 118 nel capoluogo giuliano lanciate nella “guerra” contro il virus maledetto. La battaglia quotidiana inizia con la vestizione: tuta bianca, doppi guanti, visiera e mascherina per difendersi dal contagio. Il veterano è in coppia con Fabio Tripodi, una “recluta” arrivata da poco, ma subito spedita al fronte. Le due tute bianche si lanciano nella mischia armati di barella per i pazienti Covid. “Mi è rimasta impressa una signora anziana, positiva al virus, che abbiamo trasportato di notte - racconta l’infermiere Pizzolitto - In ambulanza mi ha raccontato del marito invalido rimasto a casa. E soffriva all’idea di averlo lasciato solo con la paura che nessuno si sarebbe occupato di lui”. Bardati come due marziani spariscono nell’ospedale Maggiore di Trieste, dove sono ricoverati un centinaio di positivi, per trasferire un infetto che ha bisogno di maggiori cure. Quando tornano caricano dietro la barella e si chiudono dentro l’ambulanza con il paziente semi incosciente. Si vede solo il volto scavato che spunta dalle lenzuola bianche. Poi via a sirene spiegate verso l’ospedale di Cattinara, dove la terapia intensiva è l’ultima trincea per fermare il virus. Il Friuli-Venezia Giulia è il fronte del Nord Est che resiste al virus grazie a restrizioni draconiane, anche se negli ultimi giorni la gente comincia ad uscire troppo di casa. Un decimo della popolazione rispetto alla Lombardia ha aiutato a evitare l’inferno di Bergamo e Brescia. Il 4 aprile i contagiati erano 1986, i decessi 145, le guarigioni 220 e 1103 persone si trovano in isolamento a casa. Anche in Friuli-Venezia Giulia, come in gran parte d’Italia, le protezioni individuali per chi combatte il virus non bastano mai. “Siamo messi molto male. Le stiamo centellinando. Più che con le mascherine abbiamo avuto grandi difficoltà con visiere, occhiali e tute” ammette Antonio Poggiana, direttore generale dell’Azienda sanitaria di Trieste e Gorizia. Negli ultimi giorni sono arrivate nuove forniture, ma l’emergenza riguarda anche le residenze per anziani, flagellate dal virus. “Sono “bombe” virali innescate - spiega Alberto Peratoner responsabile del 118 - Muoiono molti più anziani di quelli certificati, anche 4-5 al giorno, ma non vengono fatti i tamponi”. Nell’ospedale di Cattinara “la terapia intensiva è la prima linea di risposta contro il virus, il nemico invisibile che stiamo combattendo ogni giorno” spiega Umberto Lucangelo, direttore del dipartimento di emergenza. Borse sotto gli occhi vive in ospedale e da separato in casa con la moglie per evitare qualsiasi rischio. Nella trincea sanitaria l’emergenza si tocca con mano. Barbara si prepara con la tuta anti contagio che la copre dalla testa ai piedi. Un’altra infermiera chiude tutti i possibili spiragli delle cerniere con larghe strisce di cerotto, come nei film. Simile ad un “palombaro” le scrivono sulla schiena il nome e l’orario di ingresso con un pennarello nero. Poi Barbara procede in un’anticamera con una porta a vetri. E quando è completamente isolata allarga le braccia e si apre l’ingresso del campo di battaglia. Ventuno pazienti intubati lottano contro la morte grazie agli angeli in tuta bianca che non li mollano un secondo, giorno e notte. L’anziano con la chioma argento sembra solo addormentato se non fosse per l’infinità di cannule infilate nel corpo, sensori e macchinari che pulsano attorno. Una signora è coperta da un telo blu e come tutti i pazienti critici ripresa dalle telecamere a circuito chiuso. Mara, occhioni neri, visiera e mascherina spunta da dietro la vetrata protettiva con uno sguardo di speranza. All’interfono racconta l’emozione “del primo ragazzo che sono riuscito a svegliare. Quando mi ha visto ha alzato entrambi i pollici in segno di ok”. E se qualcuno non ce la fa Mara spiega “che siamo preparati ad accompagnare le persone verso la morte nella maniera più dignitosa. Io le tengo per mano per non lasciarle sole fino all’ultimo momento”. Erica Venier, la capo turno, vuole ringraziare “con tutto il cuore” i triestini che ogni giorno fanno arrivare dolci, frutta, generi di conforto ai combattenti della terapia intensiva. Graziano Di Gregorio, infermiere del turno mattutino, è un veterano: “Dopo 22 anni di esperienza non avrei mai pensato di trovarmi in una trincea del genere”. Il fiore all’occhiello della rianimazione di Cattinara è di non aver perso un solo paziente, ma Di Gregorio racconta: “Infermieri di altre terapie intensive hanno dovuto dare l’estrema unzione perchè i pazienti sono soli e non si può fare diversamente”. L’azienda sanitaria sta acquistando una trentina di tablet per cercare di mantenere un contatto con i familiari e permettere l’estremo saluto. Prima di venire intubati, l’ultima spiaggia, i contagiati che hanno difficoltà a respirare sono aiutati con maschere o caschi in un altro reparto. Il direttore, Marco Confalonieri, racconta: “Mio nonno era un ragazzo del ’99, che ha combattuto sul Piave durante il primo conflitto mondiale. Ho lanciato nella mischia 13 giovani appena assunti. Sono i ragazzi del ’99 di questa guerra”.

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06 settembre 2018 | Radio immaginaria | intervento
Italia
Teen Parade
Gli adolescenti mi intervistano sulla passione per i reportage di guerra

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15 marzo 2018 | Radio Radicale | intervento
Italia
Missioni militari e interesse nazionale
https://www.radioradicale.it/scheda/535875/missioni-militari-e-interesse-nazionale Convegno "Missioni militari e interesse nazionale", registrato a Roma giovedì 15 marzo 2018 alle 09:23. L'evento è stato organizzato da Center for Near Abroad Strategic Studies. Sono intervenuti: Paolo Quercia (Direttore del CeNASS, Center for Near Abroad Strategic Studies), Massimo Artini (vicepresidente della Commissione Difesa della Camera dei deputati, Misto - Alternativa Libera (gruppo parlamentare Camera)), Fausto Biloslavo (giornalista, inviato di guerra), Francesco Semprini (corrispondente de "La Stampa" da New York), Arije Antinori (dottore di Ricerca in Criminologia ed alla Sicurezza alla Sapienza Università di Roma), Leonardo di marco (generale di Corpo d'Armata dell'Esercito), Fabrizio Cicchitto (presidente della Commissione Affari esteri della Camera, Area Popolare-NCD-Centristi per l'Europa). Tra gli argomenti discussi: Difesa, Esercito, Esteri, Forze Armate, Governo, Guerra, Informazione, Italia, Ministeri, Peace Keeping, Sicurezza. La registrazione video di questo convegno ha una durata di 2 ore e 46 minuti. Questo contenuto è disponibile anche nella sola versione audio

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