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12 giugno 2019 - Prima - Italia - Panorama
Una Difesa lasciata sola
Generali ribelli, spese della Difesa “in stato confusionale”, il decreto missioni presentato fuori tempo massimo, contratti per sistemi d’arma cruciali non firmati, costosa indecisione sui caccia F 35, il rischio di 1 miliardo in meno per gli investimenti nella Difesa, 60 milioni di euro l’anno di straordinari non pagati sono alcuni dei nodi che stanno venendo al pettine. Il simbolo “peace and love” in Parlamento, i balletti imbarazzanti a Lourdes, le entusiastiche congratulazioni alla coppia gay della Marina rappresentano solo il contorno allegorico del ministro della Difesa, Elisabetta Trenta. Il problema vero è che il mondo militare si sente profondamente a disagio con la gestione politica del dicastero come mai è capitato prima. Panorama ha interpellato i generali ribelli, esperti e analisti, personale in servizio in quest’inchiesta su tutte le magagne della Difesa. Il ministro, il suo ufficio stampa e il portavoce non hanno neppure risposto a una richiesta di intervista. Il decreto per le missioni internazionali è stato finalmente presentato alle Commissioni parlamentari il 31 maggio e chissà quando verrà convertito in legge con il voto in aula. Un ritardo di sei mesi rispetto alla scadenza del 31 dicembre. Due in più del governo Renzi. L’aspetto paradossale è che sembra una specie di fotocopia del decreto del governo precedente di centro sinistra. La spesa è di 1 miliardo e 428 milioni di euro ed i militari impegnati sono 7.343 unità, 624 in meno rispetto al 2018. “Perchè non presentarlo prima ed evitare un duplice problema: la mancata copertura giuridica per i nostri militari impegnati all’estero e una questione finanziaria. Senza la copertura del decreto missioni i comandanti hanno le mani legati per le manutenzioni e le esercitazioni con il rischio che i mezzi non siano efficienti e i soldati preparati”  spiega Vincenzo Camporini, ex capo di Stato maggiore della Difesa, uno dei generali ribelli, che ha disertato per protesta la parata del 2 giugno. Una fonte della Difesa svela a Panorama l’arcano: “Il decreto è stato rimandato perché c’era il voto europeo e non si voleva puntare i riflettori sulle missioni all’estero, che di fatto non cambiano”. Questione minore rispetto all’handicappato budget del ministero guidato da Trenta per il 2019. Michele Nones, dell’Istituto affari internazionali evidenziava fin da aprile in un dettagliato studio, che “la gestione governativa delle spese per la difesa sembra essere ormai precipitata in uno stato confusionale”. Per un giudizio definitivo bisogna aspettare il Documento programmatico pluriennale 2019-2021, che a termini di legge doveva essere presentato in Parlamento a fine aprile, ma non ha ancora visto la luce. Al momento, secondo Giovanni Martinelli, analista del settore difesa “la quantità di risorse disponibili per gli investimenti potrebbe essere di 1 miliardo di euro in meno rispetto al 2018”. Una botta pesante, ma non l’unica: le voci “formazione e addestramento” oltre a “manutenzione e supporto” sono pure in calo. Non solo: i proventi della vendita degli immobili militari dovevano andare per il 35% al ministero della Difesa. Il governo del “cambiamento” ha stabilito che questa percentuale scenderà al 10%.  Il 6 giugno il ministro Trenta rispondendo al question time alla Camera smentisce le riduzioni, ma si riferisce a fondi stanziati i tempi lunghi: “Le assegnazioni previste consolidano una dotazione addizionale pari a 5,8 mld di euro, cui si aggiungono oltre 3,4 mld di euro provenienti dalle risorse del Ministero dello sviluppo economico”. Il bilancio è salito del 2,2% a 21.432.2 milioni di euro, ma soprattutto per l’esplosione dei costi del personale, che assorbe i tre quarti del budget a disposizione. In pratica con scarsi investimenti e soldi per addestramento e manutenzione “rischiamo di avere delle Forze armate che sono tigri di carta - sostiene Martinelli - Non solo spendiamo poco nel campo della Difesa, ma pure male”.  E ci ritroviamo con soldati sempre più “vecchi” grazie alla marea di marescialli poco operativi, che il ministro Trenta vuole aumentare. Un concorso straordinario sfornerà nuovi marescialli rendendo impossibile abbattere drasticamente il numero entro il 2024 per raggiungere un totale di 150mila uomini nelle Forze armate. Nonostante il capo di Stato maggiore dell’Esercito, Salvatore Farina, ha dichiarato l’8 maggio che bisogna “prevedere una modifica normativa per dare impulso al ringiovanimento se si vuole contrastare il trend della categoria dei graduati proiettata verso breve ad un’età media di oltre 45 anni”. Anche altre parole dell’alto ufficiale rischiano di restare lettera morta: “Per quanto riguarda le capacità ed i sistemi d’arma l’obiettivo è avere un esercito sempre più moderno allo stesso livello delle forze armate consorelle competitive a livello internazionale. Un aspetto che non può prescindere da un’importante spinta negli investimenti a breve per consentire un rapido ammodernamento”. Il grande punto di domanda sono i fondi effettivi che metterà a disposizione il ministero dello Sviluppo economico, a favore della Difesa, guidato da Luigi Di Maio. Per ora ha cancellato il programma di rinnovamento della difesa contraerea Camm-Er, che costa mezzo miliardo, ma spalmato fino al 2031. Nel 2019 basterebbe stanziare 25 milioni di euro. Il sistema attuale, Spada, è oramai obsoleto e senza i nuovi missili non potremmo neanche ospitare summit internazionali, Olimpiadi e Mondiali. Ovvero i grandi eventi che dopo l’11 settembre impongono sistemi di difesa aerei adeguati. Si rischia che basi, aeroporti e le nostre missioni all’estero restino sguarniti. Trenta non ha risposto ad una lettera degli inglesi del novembre 2018, controparte nel programma Camm Er. Un harakiri tenendo conto che la produzione garantirebbe allo stabilimento di Mbda (25% Leonardo, ex Finmeccanica) assunzioni e commesse per molti anni nello stabilimento di Fusaro, in provincia di Napoli, collegio elettorale del vice premer Di Maio. “Siamo di fronte a dilettantismo e inadeguatezza. E il 90% degli alti ufficiali in congedo la pensa come noi” spiega a Panorama un altro ribelle, l’ex generale Leonardo Tricarico, ex capo di stato maggiore dell’Aeronautica. Il governo \\\"non garantisce l\\\'efficienza dello strumento militare, non sostiene i programmi di ricerca e sviluppo della Difesa. E vuole irrigidire le esportazioni delle nostre industrie militari”.  Un’altra grana è l’acquisizione dei caccia bombardieri F 35. Dopo un anno di chiacchiere il ministro della Difesa non ha ancora deciso come tagliare, o meno, la commessa di 90 velivoli da combattimento per sostituire i 100 che stanno diventando obsoleti. Il 30 maggio Trenta ha dichiarato al Senato che entro il 2022 arriveranno 28 caccia e 13 già consegnati sono “completamente finanziati”. Secondo Silvio Lora Lamia, che segue da esperto il progetto fin dagli anni novanta, “l’ F 35 è nato male come programma militare industriale. E’ costoso anche nell’ammodernamento e parte dei pezzi di ricambio sono inutilizzabili. Però l’indecisione del governo e soprattutto della Difesa sugli ordini dei prossimi anni creano un grosso problema di pianificazione operativa ai militari in termini di gruppi di volo e addestramento piloti. E andrà a finire che pagheremo di più”. Alla base di Grottaglie dell’aviazione navale per gli F 35 hanno già speso 20 milioni di euro, ma i lavori sono sospesi da due anni. “La famosa relazione costi benefici è ferma sul tavolo del premier Conte come la Tav - spiega Lamia - Nessuno ha ancora deciso cosa fare”. Anche i carri armati Ariete dovrebbero venire sostituiti. I ricorrenti interventi di manutenzione stanno aumentando i costi. “L’esercito è a pezzi” osserva con Panorama un ufficiale operativo. Sul tavolo del ministro ci sono diversi contratti in attesa di firma, come la tecnologia per il Soldato del futuro, ribattezzato “soldato sicuro”, un sistema innovativo teso a migliorare le tattiche di combattimento e l’incolumità del militare. Mario Arpino, ex capo di Stato maggiore durante la prima guerra del Golfo, pure lui generale ribelle che non si è presentato alla parata del 2 giugno, è convinto che “i problemi della Difesa sono l’ultima ruota del carro per la politica. Chi è in in servizio attivo non lo può dire pubblicamente, ma è sfiduciato, in grande stato di disagio”. Anche per il fiore all’occhiello dell’ utilizzo “duale” delle Forze armate nella missione Strade sicure, che impegna in Italia circa 7mila uomini, più di tuti i soldati all’estero, ci sono problemi. Il generale Francesco Ceravolo come Cocer dell’esercito, ovvero rappresentante dei militari, ha fatto presente al premier Conte e al ministro Trenta in un incontro del 24 maggio che non vengono pagati gli straordinari. “Circa sei milioni di ore  all’anno, di cui solo due remunerate, mentre le rimanenti dovrebbero essere recuperate dal personale (con periodi di licenza ndr) - ha detto il generale - ma non  è possibile a causa di concomitanti impegni operativi”. In definitiva lo Stato deve ai militari di Strade sicure “60 milioni di euro” all’anno. E si tratta in gran parte della truppa, che ha il reddito più basso. La “rivolta” degli ex generali contro il ministro della Difesa non si limita ai tre ribelli del 2 giugno. Giorgio Cornacchione, che comandò l’operazione Antica Babilonia in Iraq, dove Trenta era capitano della riserva selezionata, si è scagliato contro la balzana idea del premier Conte di rinunciare a cinque fucili per delle borse di studio pacifiste. Il generale Nicolò Manca, ex comandante dei dimonios della leggendaria brigata Sassari, ha dichiarato “che la decisione ministeriale di dedicare la parata del 2 giuro al tema dell’inclusione è una notizia da non credere”. Antonio Li Gobbi, ex alto ufficiale che viene dal Genio guastatori, ha attaccato il ministro Trenta prendendo le difese del generale Paolo Riccò, pluridecorato in Somalia e Afghanistan. Riccò è finito sotto inchiesta interna per avere abbandonato la cerimonia del 25 aprile a Viterbo in segno di protesta per il discorso di un esponente dell’Associazioni partigiani, che ha accusato i soldati italiani di avere ammazzato più civili dei talebani. L’ex generale Gabriele Carta, a nome di 6mila membri delle associazioni combattentistiche in Sardegna ha scritto al Capo dello stato esprimendo “lo scontento che deriva dall’entusiastico messaggio di congratulazioni che la ministra Trenta ha voluto dedicare alla coppia di due marinaie” che si sono sposate in divisa.  La responsabile della Difesa si è limitata a dire in Parlamento che “le molteplici attestazioni di stima arrivate a livello istituzionale e dai cittadini per lo svolgimento della festa della Repubblica dimostrano l\\\'infondatezza delle critiche”. Però sono pochi gli alti ufficiali in congedo intervenuti a suo favore. L’ex ammiraglio Giuseppe Lertora ha puntato il dito contro “una sorta di lobby diretta contro il Ministro” composta dai generali ribelli del 2 giugno. I veri pretoriani di Elisabetta Trenta sono gli esponenti dei sindacati ancora non riconosciuti da una legge ad hoc, che hanno ricevuto il via libera dalla responsabile della Difesa. Sinibaldo Buono, neo sindacalista dell’Aeronautica, ha elogiato “la svolta epocale voluta strenuamente dal ministro”. Trenta farebbe bene ad occuparsi di meno di sindacati e di più della decisione presa cinque anni fa da tutti i paesi della Nato, su spinta dell’amministrazione Obama, di aumentare le spese per la difesa al 2% del Pil entro il 2024. Oggi il bilancio è poco sopra l’1% e il raddoppio appare una missione impossibile. Non a caso il 17 febbraio davanti alle Commissioni Difesa di Camera e Senato, il capo di Stato maggiore, generale Enzo Vecciarelli aveva lanciato l’allarme spiegando che in caso contrario “dovremo rinunciare non solo all’ efficienza di molti sistemi ma, già dal prossimo futuro, anche ad interi profili capacitivi”. L’agenda recondita dei grillini sembra puntare a una specie di smilitarizzazione dimostrata dalla censura al video considerato combat per il 4 novembre, festa delle Forze armate, manifesti della Difesa per il 2 giugno e altre ricorrenze con uomini in divisa, ma senza un’arma come se usassero le cerbottane per combattere e fossero una protezione civile rafforzata. Gianandrea Gaiani, direttore di Analisi difesa e consigliere per le politiche di sicurezza del ministro dell’Interno Matteo Salvini ha scritto in un editoriale: “Tutti elementi che indicano una visione assai limitata del comparto Difesa, una visione pacifista da oratorio e “casa del popolo”, ma oggi quanto memo inadeguata anche solo a comprendere le sfide attuali”.   Fausto Biloslavo

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06 giugno 2017 | Sky TG 24 | reportage
Terrorismo da Bologna a Londra
Fausto Biloslavo "Vado a fare il terrorista” è l’incredibile affermazione di Youssef Zaghba, il terzo killer jihadista del ponte di Londra, quando era stato fermato il 15 marzo dello scorso anno all’aeroporto Marconi di Bologna. Il ragazzo nato nel 1995 a Fez, in Marocco, ma con il passaporto italiano grazie alla madre Khadija (Valeria) Collina, aveva in tasca un biglietto di sola andata per Istanbul e uno zainetto come bagaglio. Il futuro terrorista voleva raggiungere la Siria per arruolarsi nello Stato islamico. Gli agenti di polizia in servizio allo scalo Marconi lo hanno fermato proprio perché destava sospetti. Nonostante sul cellulare avesse materiale islamico di stampo integralista è stato lasciato andare ed il tribunale del riesame gli ha restituito il telefonino ed il computer sequestrato in casa, prima di un esame approfondito dei contenuti. Le autorità inglesi hanno rivelato ieri il nome del terzo uomo sostenendo che non “era di interesse” né da parte di Scotland Yard, né per l’MI5, il servizio segreto interno. Il procuratore di Bologna, Giuseppe Amato, ha dichiarato a Radio 24, che "venne segnalato a Londra come possibile sospetto”. E sarebbero state informate anche le autorità marocchine, ma una fonte del Giornale, che ha accesso alle banche dati rivela “che non era inserito nella lista dei sospetti foreign fighter, unica per tutta Europa”. Non solo: Il Giornale è a conoscenza che Zaghba, ancora minorenne, era stato fermato nel 2013 da solo, a Bologna per un controllo delle forze dell’ordine senza esiti particolari. Il procuratore capo ha confermato che l’italo marocchino "in un anno e mezzo, è venuto 10 giorni in Italia ed è stato sempre seguito dalla Digos di Bologna. Abbiamo fatto tutto quello che si poteva fare, ma non c'erano gli elementi di prova che lui fosse un terrorista. Era un soggetto sospettato per alcune modalità di comportamento". Presentarsi come aspirante terrorista all’imbarco a Bologna per Istanbul non è poco, soprattutto se, come aveva rivelato la madre alla Digos “mi aveva detto che voleva andare a Roma”. Il 15 marzo dello scorso anno il procuratore aggiunto di Bologna, Valter Giovannini, che allora dirigeva il pool anti terrorismo si è occupato del caso disponendo un fermo per identificazione al fine di accertare l’identità del giovane. La Digos ha contattato la madre, che è venuta a prenderlo allo scalo ammettendo: "Non lo riconosco più, mi spaventa. Traffica tutto il giorno davanti al computer per vedere cose strane” ovvero filmati jihadisti. La procura ha ordinato la perquisizione in casa e sequestrato oltre al cellulare, alcune sim ed il pc. La madre si era convertita all’Islam quando ha sposato Mohammed il padre marocchino del terrorista che risiede a Casablanca. Prima del divorzio hanno vissuto a lungo in Marocco. Poi la donna è tornata casa nella frazione di Fagnano di Castello di Serravalle, in provincia di Bologna. Il figlio jihadista aveva trovato lavoro a Londra, ma nella capitale inglese era entrato in contatto con la cellula di radicali islamici, che faceva riferimento all’imam, oggi in carcere, Anjem Choudary. Il timore è che il giovane italo-marocchino possa essere stato convinto a partire per la Siria da Sajeel Shahid, luogotenente di Choudary, nella lista nera dell’ Fbi e sospettato di aver addestrato in Pakistan i terroristi dell’attacco alla metro di Londra del 2005. "Prima di conoscere quelle persone non si era mai comportato in maniera così strana” aveva detto la madre alla Digos. Il paradosso è che nessuna legge permetteva di trattenere a Bologna il sospetto foreign fighter ed il tribunale del riesame ha accolto l’istanza del suo avvocato di restituirgli il materiale elettronico sequestrato. “Nove su dieci, in questi casi, la richiesta non viene respinte” spiega una fonte del Giornale, che conosce bene la vicenda. Non esiste copia del materiale trovato, che secondo alcune fonti erano veri e propri proclami delle bandiere nere. E non è stato possibile fare un esame più approfondito per individuare i contatti del giovane. Il risultato è che l’italo-marocchino ha potuto partecipare alla mattanza del ponte di Londra. Parenti e vicini cadono dalle nuvole. La zia acquisita della madre, Franca Lambertini, non ha dubbi: “Era un bravo ragazzo, l'ultima volta che l'ho visto mi ha detto “ciao zia”. Non avrei mai pensato a una cosa del genere".

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31 ottobre 2021 | Quarta repubblica | reportage
No vax scontri al porto
I primi lacrimogeni rimbalzano sull'asfalto e arditi No Pass cercano di ributtarli verso il cordone dei carabinieri che sta avanzando per sgomberare il varco numero 4 del porto di Trieste. I manifestanti urlano di tutto «merde, vergogna» cercando pietre e bottiglie da lanciare contro le forze dell'ordine. Un attivista ingaggia lo scontro impossibile e viene travolto dalle manganellate. Una volta crollato a terra lo trascinano via oltre il loro cordone. Scene da battaglia urbana, il capoluogo giuliano non le vedeva da decenni. Portuali e No Pass presidiavano da venerdì l'ingresso più importante dello scalo per protestare contro l'introduzione obbligatoria del lasciapassare verde. In realtà i portuali, dopo varie spaccature, sono solo una trentina. Gli altri, che arriveranno fino a 1.500, sono antagonisti e anarchici, che vogliono la linea dura, molta gente venuta da fuori, più estremisti di destra. Alle 9 arrivano in massa le forze dell'ordine con camion-idranti e schiere di agenti in tenuta antisommossa. Una colonna blu che arriva da dentro il porto fino alla sbarra dell'ingresso. «Lo scalo è porto franco. Non potevano farlo. È una violazione del trattato pace (dello scorso secolo, nda)» tuona Stefano Puzzer detto Ciccio, il capopopolo dei portuali. Armati di pettorina gialla sono loro che si schierano in prima linea seduti a terra davanti ai cordoni di polizia. La resistenza è passiva e gli agenti usano gli idranti per cercare di far sloggiare la fila di portuali. Uno di loro viene preso in pieno da un getto d'acqua e cade a terra battendo la testa. Gli altri lo portano via a braccia. Un gruppo probabilmente buddista prega per evitare lo sgombero. Una signora si avvicina a mani giunte ai poliziotti implorando di retrocedere, ma altri sono più aggressivi e partono valanghe di insulti. Gli agenti avanzano al passo, metro dopo metro. I portuali fanno da cuscinetto per tentare di evitare incidenti più gravi convincendo la massa dei No Pass, che nulla hanno a che fare con lo scalo giuliano, di indietreggiare con calma. Una donna alza le mani cercando di fermare i poliziotti, altri fanno muro e la tensione sale alimentata dal getto degli idranti. «Guardateci siamo fascisti?» urla un militante ai poliziotti. Il nocciolo duro dell'estrema sinistra seguito da gran parte della piazza non vuole andarsene dal porto. Quando la trattativa con il capo della Digos fallisce la situazione degenera in scontro aperto. Diego, un cuoco No Pass, denuncia: «Hanno preso un mio amico, Vittorio, per i capelli, assestandogli una manganellata in faccia». Le forze dell'ordine sgomberano il valico, ma sul grande viale a ridosso scoppia la guerriglia. «Era gente pacifica che non ha alzato un dito - sbotta Puzzer - È un attacco squadrista». I più giovani sono scatenati e spostano i cassonetti dell'immondizia per bloccare la strada scatenando altre cariche degli agenti. Donne per nulla intimorite urlano «vergognatevi» ai carabinieri, che rimangono impassibili. In rete cominciano a venire pubblicati post terribili rivolti agli agenti: «Avete i giorni contati. Se sai dove vivono questi poliziotti vai a ucciderli».Non a caso interviene anche il presidente Sergio Mattarella: «Sorprende e addolora che proprio adesso, in cui vediamo una ripresa incoraggiante esplodano fenomeni di aggressiva contestazione». Uno dei portuali ammette: "Avevamo detto ai No Pass di indietreggiare quando le forze dell'ordine avanzavano ma non ci hanno ascoltati. Così la manifestazione pacifica è stata rovinata». Puzzer raduna le «truppe» e i rinforzi, 3mila persone, in piazza Unità d'Italia. E prende le distanze dagli oltranzisti: «Ci sono gruppi che non c'entrano con noi al porto che si stanno scontrando con le forze dell'ordine». Non è finita, oltre 100 irriducibili si scatenano nel quartiere di San Vito. E riescono a bloccare decine di camion diretti allo scalo con cassonetti dati alle fiamme in mezzo alla strada. Molti sono vestiti di nero con il volto coperto simili ai black bloc. La battaglia sul fronte del porto continua fino a sera.

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30 aprile 2020 | Tg5 | reportage
L'anticamera dell'inferno
Fausto Biloslavo TRIESTE - “Per noi in prima linea c’è il timore che il ritorno alla vita normale auspicata da tutti possa portare a un aumento di contagi e dei ricoveri di persone in condizioni critiche” ammette Gianfranco, veterano degli infermieri bardato come un marziano per proteggersi dal virus. Dopo anni in pronto soccorso e terapia intensiva lavorava come ricercatore universitario, ma si è offerto volontario per combattere la pandemia. Lunedì si riapre, ma non dimentichiamo che registriamo ancora oltre 250 morti al giorno e quasi duemila nuovi positivi. I guariti aumentano e il contagio diminuisce, però 17.569 pazienti erano ricoverati con sintomi fino al primo maggio e 1578 in rianimazione. Per entrare nel reparto di pneumologia semi intensiva respiratoria dell’ospedale di Cattinara a Trieste bisogna seguire una minuziosa procedura di vestizione. Mascherina di massima protezione, tuta bianca, copri scarpe, doppi guanti e visiera per evitare il contagio. Andrea Valenti, responsabile infermieristico, è la guida nel reparto dove si continua a combattere, giorno e notte, per strappare i contagiati alla morte. Un grande open space con i pazienti più gravi collegati a scafandri o maschere che li aiutano a respirare e un nugolo di tute bianche che si spostano da un letto all’altro per monitorare o somministrare le terapie e dare conforto. Un contagiato con i capelli grigi tagliati a spazzola sembra quasi addormentato sotto il casco da marziano che pompa ossigeno. Davanti alla finestra sigillata un altro paziente che non riesce a parlare gesticola per indicare agli infermieri dove sente una fitta di dolore. Un signore cosciente, ma sfinito, con i tubi dell’ossigeno nel naso è collegato, come gli altri, a un monitor che segnala di continuo i parametri vitali. “Mi ha colpito un paziente che descriveva la sensazione terribile, più brutta del dolore, di non riuscire a respirare. Diceva che “è come se mi venisse incontro la morte”” racconta Marco Confalonieri direttore della struttura complessa di pneumologia e terapia intensiva respiratoria al dodicesimo piano della torre medica di Cattinara. La ventilazione non invasiva lascia cosciente il paziente che a Confalonieri ha raccontato come “bisogna diventare amico con la macchina, mettersi d’accordo con il ventilatore per uscire dal tunnel” e tornare alla vita. Una “resuscitata” è Vasilica, 67 anni, operatrice di origine romena di una casa di risposo di Trieste dove ha contratto il virus. “Ho passato un inferno collegata a questi tubi, sotto il casco, ma la voglia di vivere e di rivedere i miei nipoti, compreso l’ultimo che sta per nascere, ti fa sopportare tutto” spiega la donna occhialuta con una coperta sulle spalle, mascherina e tubo per l’ossigeno. La sopravvissuta ancora ansima quando parla del personale: “Sono angeli. Senza questi infermieri, medici, operatori sanitari sarei morta. Lottano ogni momento al nostro fianco”. Il rumore di fondo del reparto è il ronzio continuo delle macchine per l’ossigeno. L’ambiente è a pressione negativa per aspirare il virus e diminuire il pericolo, ma la ventilazione ai pazienti aumenta la dispersione di particelle infette. In 6 fra infermieri ed un medico sono stati contagiati. “Mi ha colpito la telefonata di Alessandra che piangendo ripeteva “non è colpa mia, non è colpa mia” - racconta Confalonieri con il volto coperto da occhialoni e maschera di protezione - Non aveva nessuna colpa, neppure sapeva come si è contagiata, ma si struggeva per dover lasciare soli i colleghi a fronteggiare il virus”. Nicol Vusio, operatrice sanitaria triestina di 29 anni, ha spiegato a suo figlio che “la mamma è in “guerra” per combattere un nemico invisibile e bisogna vincere”. Da dietro la visiera ammette: “Me l’aspettavo fin dalla prime notizie dalla Cina. Secondo me avremmo dovuto reagire molto prima”. Nicol racconta come bagna le labbra dei pazienti “che con gli occhi ti ringraziano”. I contagiati più gravi non riescono a parlare, ma gli operatori trovano il modo di comunicare. “Uno sguardo, la rotazione del capo, il movimento di una mano ti fa capire se il paziente vuole essere sollevato oppure girato su un fianco o se respira male” spiega Gianfranco, infermiere da 30 anni. Il direttore sottolinea che “il covid “cuoce” tutti gli organi, non solo il polmone e li fa collassare”, ma il reparto applica un protocollo basato sul cortisone che ha salvato una novantina di contagiati. Annamaria è una delle sopravvissute, ancora debole. Finalmente mangia da sola un piattino di pasta in bianco e con un mezzo sorriso annuncia la vittoria: “Il 7 maggio compio 79 anni”.

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03 giugno 2019 | Radio Scarp | intervento
Italia
Professione Reporter di Guerra


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