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Reportage
02 ottobre 2019 - Esteri - Afghanistan - Panorama
Far West Afghanistan
KABUL - Il buio pesto di una notte senza stelle è squarciato dai bagliori rossastri della mitragliatrice pesante sul tetto di un blindato, che sputa raffiche verso valle. I talebani hanno attaccato una base avanzata della polizia ad un passo da Maidan Shahr, capoluogo del Wardack. Non una provincia qualunque, ma la porta d’ingresso verso Kabul, da dove si infiltrano i terroristi suicidi che seminano morte e distruzione nella capitale. La colonna di blindati della polizia si è inerpicata sulla careggiata tortuosa che porta alla “pietra nera”, la posizione che domina l’area infestata dai talebani. Dietro i sacchetti di sabbia gli agenti di vent’anni, ma già veterani, scaricano un fuoco di copertura d’inferno per dare man forte ai commilitoni nel fondo valle semi assediati.  Il comandate, in pantaloni a sbuffo e tunica afghana, infila una granata da 80 millimetri dietro l’altra nel tubo di lancio del mortaio. Il tonfo sordo del colpo in partenza illumina per un  attimo la postazione zeppa di poliziotti armati fino ai denti, che urlano in coro “Allah o akbar”, Dio è grande. A 40 minuti di macchina da Kabul siamo al fronte, dove “jang”, guerra, è la parola più comune.  “Le isole felici come le valle del Panjisher sono poche. Gran parte dell’Afghanistan è un Far west, dove non sei sicuro neppure sulle strade principali” spiega in italiano, Ziauddin Saifee. L’imprenditore afghano nato nell’indomita valle a nord di Kabul, mai conquistata, né dai sovietici, né dai talebani, ha frequentato l’accademia militare di Modena, prima di cambiare mestiere.   Nei giorni precedenti al contestato primo turno delle elezioni presidenziali del 28 settembre in giro per Kabul non circolava un solo occidentale, a parte qualche giornalista. Dopo 18 anni di intervento della Nato i diplomatici sono barricati nella zona verde, dove le ambasciate e gli uffici governativi sembrano Fort Knox circondati da doppie cinture di mura altissime, reticolato, sbarramenti anti macchine bomba e un esercito di guardie in assetto da combattimento. Per avventurarsi al di fuori della capitale bisogna vestirsi da afghani e lasciarsi crescere la barba viaggiando su un’anonima e scassata Corolla bianca, la macchina più comune e per questo preferita dai kamikaze, nella speranza di evitare guai. “Stiamo passando in una zona alle porte di Kabul infiltrata dallo Stato islamico” annuncia come se fosse normale, Aziz che ci accompagna nel Far West afghano.  Nella provincia di Wardak il governo controlla a malapena l’autostrada numero 1, che arriva fino al Sud e all’Est del paese e non tutti i capoluoghi di distretto. Il resto è in mano ai talebani come il comandante Rahim Sultanak, a capo di una “Red unit”, le forze speciali dei tagliagole islamici. Si è fatto un nome grazie alla crudeltà. Ogni tanto fa scorribande sull’autostrada fermando le macchine dei civili. Se trova dei dipendenti pubblici, anche del dipartimento più innocuo e gli odiati hazara, la minoranza sciita, li passa per le armi. “Di talebani ne abbiamo uccisi 500 negli ultimi sette mesi. Ogni 5 caduti dei nostri, loro ne perdono 20” spiega l’affabile generale Mohammed Wais “Samimi”, comandante della polizia in tutta la provincia. Nei suoi corpi speciali sono arruolate anche due tostissime donne, che ci mostrano con orgoglio le foto sul telefonino delle battaglie. “Porto il velo, ma sparo con la mitragliatrice del blindato come gli uomini” sostiene Fatima.  Peccato che ancora oggi appena il 31,7% delle donne adulte sia alfabetizzata e solo il 14% lavora. Non solo: un recente sondaggio Gallup rivela che quasi la metà della popolazione femminile (47%) vorrebbe lasciare il paese per rifarsi una vita all’estero. Non solo i diplomatici, ma pure i militari del lungo intervento Nato iniziato dopo l’11 settembre, sono barricati nelle basi, come gli 800 soldati italiani ad Herat, che oramai svolgono solo una missione di addestramento e come consiglieri delle forze di sicurezza afghane. Non sempre esenti da rischi, che vengono taciuti dalla Difesa. Agli inizi di settembre nel campo dell’esercito afghano di Al Zafar ad Herat, una quinta colonna talebana ha cercato di sparare sui nostri, ma il soldato traditore è stato eliminato. In gergo si chiamano “green on blue”  ed è il secondo quest’anno che riguarda i soldati italiani. A pagare il prezzo più alto di una guerra senza fine sono i civili. Secondo l’Onu le vittime nell’ultimo decennio sarebbero 32mila, ma solo in agosto sono stati uccisi una media di 74 donne, uomini e bambini al giorno. Fino allo scorso anno i civili ammazzati dai talebani superavano sempre quelli vittime delle forze afghane o della Nato. L’incremento dei bombardamenti aerei e dei droni ha ribaltato le proporzioni. L’ultimo “danno collaterale” è del 22 settembre nella provincia di Helmand, roccaforte dei talebani, con una ventina di morti, soprattutto donne e bambini. Il colonnello, Sonny Leggett, portavoce della coalizione a guida americana, denuncia, però, l’utilizzo di scudi umani: “Combattiamo contro chi si nasconde intenzionalmente dietro ai civili e fa propaganda con dati falsi” sulle perdite innocenti. Dopo il fallimento dei negoziati con gli Stati Uniti, che ha bloccato il ritiro di un terzo dei 14 mila americani ancora in Afghanistan, i talebani sono pronti “a combattere per altri 100 anni”. Alla proclamazione del vincitore dopo il probabile secondo turno delle presidenziali del 23 novembre non è escluso che possa scoppiare una nuova guerra civile. Il presidente uscente, il pasthun Ashraf Ghani e lo sfidante tajiko, Abdullah Abdullah, già si erano scambiati pesanti accuse di brogli cinque anni fa.  In Afghanistan è tornato dopo gli studi a Londra, Ahmad Massoud, per raccogliere il testimone del padre, il leggendario Leone del Panjsher che ha fermato prima i sovietici e poi i talebani fino all’attentato di Al Qaida che lo ha ucciso alla vigilia dell’11 settembre. Il giovane Massoud è pronto a combattere, come il padre, “contro i talebani se vogliono tornare a Kabul con la forza delle armi”. Nel Pansjsher, ma pure in alcune zone della capitale, è tornata a sventolare, al posto dello stendardo nazionale, la bandiera verde, bianca e nera della resistenza dei mujaheddin di Massoud.  Il 9 settembre, all’anniversario dell’assassinio del Leone, gruppi di miliziani tajiki armati che volevano commemorarlo si sono scontrati con le forze di sicurezza e hanno sparato pure sui poster elettorali del presidente Ghani.  “La soluzione migliore è quella di dividere il paese - dichiara un ufficiale superiore dei corpi speciali afghani - Il nord ai tajiki e le altre etnie, uzbeki e hazara, che non  hanno problemi a vivere assieme e il sud ai pasthun e ai talebani”.   Fausto Biloslavo   “Certo che ho paura di saltare in aria. Talvolta penso che qualcuno vicino a me fra un attimo si farà esplodere in un attacco suicida, ma non mollo e vado avanti a guidare la mia navetta rosa” spiega Razia, 24 anni capelli corvini, bella ragazza. In un paese come l’Afghanistan, dove il burqa va sempre di moda, quattro donne hanno deciso di fare le autiste di navette esclusivamente per passeggere a Kabul. Non si tratta solo di una scelta coraggiosa, ma rivoluzionaria. “E’ il primo e unico servizio di trasporto per sole donne nella capitale” sottolinea Susanna Fioretti, fondatrice dell’associazione italiana Nove onlus, che ha ideato il progetto.  Da luglio le quattro autiste rigorosamente selezionate trasportano ogni giorno 32 donne da casa al lavoro in un ufficio governativo e in due scuole pubbliche e viceversa. “In mezzo al traffico qualcuno suona il clacson in segno di appoggio, alcuni uomini sorridono e altri ancora sono sorpresi, ci insultano o minacciano” fa notare Mahjabin. Una giovane vedova decisa a rialzare la testa: “Lo faccio per mia figlia piccola. Spero che quando sarà adulta tutte le donne in Afghanistan potranno guidare”. Le passeggere sono entusiaste, anche se in tante si coprono il viso per non venire fotografate temendo ritorsioni. Un uomo segue ogni navetta rosa per intervenire in caso di minacce o un problema meccanico. Grazie ai fondi della fondazione Only the brave e di Usaid il servizio è gratuito. L’obiettivo è di arrivare ben presto a trasportare 100 donne al giorno. Ed espandersi in altre città, se i talebani non le colpiranno prima. Laila, una giovane divorziata, con un accenno di trucco, non ha dubbi: “Siamo donne libere e lo stiamo dimostrando ogni giorno al volante della nostra navetta rosa”. f. bil.

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20 maggio 2007 | Terra! | reportage
I due che non tornarono
Due “fantasmi” resteranno legati per sempre alla brutta storia del sequestro e della liberazione di Daniele Mastrogiacomo. I fantasmi degli ostaggi afghani, gli ostaggi di serie B, il cui sangue pesa meno di quello di un giornalista italiano, come ci hanno detto fra le lacrime i loro familiari ed in tanti a Kabul (…) Gente comune, interpreti ed autisti del circo mediatico che ha invaso per qualche settimana l’Afghanistan e si è dissolto quando il giornalista di Repubblica è tornato a casa sano e salvo. I due fantasmi di questa brutta storia si chiamano Sayed Agha e Adjmal Naskhbandi, i compagni di sventura afghani di Mastrogiacomo che non sono più tornati a casa. I tagliagole talebani non hanno avuto un briciolo di pietà a tagliare loro la testa in nome del Jihad, la guerra santa. (…) Non si capisce cosa aveva da esultare il giornalista italiano, il 20 marzo, quando è sceso dalla scaletta dell’aereo che lo aveva riportato in patria, alzando le braccia al cielo come se avesse vinto un incontro di pugilato all’ultimo round. Alle spalle, sul campo di battaglia, aveva lasciato sia i vivi che i morti: Sayed il suo autista decapitato quattro giorni prima e Adjmal l’interprete rimasto vivo, ma ancora nelle grinfie dei talebani. (…) Purtroppo con il destino già segnato di una condanna a morte che servirà solo a seminare ulteriore zizzania politica in Italia ed in Afghanistan. Fin dal 5 marzo, quando sono stati inghiottiti in tre nella palude talebana della provincia di Helmand, i riflettori erano puntati solo sull’ostaggio eccellente, Daniele Mastrogiacomo. (…) Una prassi nei casi di sequestro dove chi ha il tuo stesso passaporto vale di più dei disgraziati locali che si trascina dietro. Loro se la cavano, si pensa spesso, ma in questo caso non è stato così. Il miraggio di guadagnare un pugno di dollari accompagnando un giornalista straniero a caccia dello scoop l’hanno pagato con la vita. Sayed aveva 25 anni e quattro figli, di cui il più grande Atifah ha solo sei anni. L’ultimo, il quinto che la moglie rischiava di perdere quando ha saputo del sequestro del marito, è nato un giorno prima del funerale del padre. Sayed faceva l’autista e pensava che non fosse tanto rischioso portare in giro Mastrogiacomo in una zona che conosceva come le sue tasche, perché c’era nato e ci viveva. Invece non aveva fatto i conti giusti con i talebani che per vecchie ruggini familiari e con l’accusa di spionaggio l’hanno processato secondo la legge islamica e condannato a morte. (…) Il 16 marzo i tagliagole hanno detto ai tre ostaggi che andavano a fare un giro, ma Sayed doveva sentire che era arrivata la sua ultima ora. Quando l’hanno fatto inginocchiare, a fianco di Mastrogiacomo, nella sabbia, in tunica bianca e con una benda rossa sugli occhi, non si agitava, sembrava rassegnato. Il giudice islamico ha letto una sbrigativa sentenza in nome di Allah ed il boia al suo fianco ha buttato il poveretto nella polvere, di traverso, per decapitarlo meglio. Nella mano destra del boia è apparso un coltellaccio ricurvo per segargli il collo. Sul corpo inanimato della vittima, come se fosse un burattino sena fili i tagliagole solitamente appoggiano la testa e si fanno riprendere soddisfatti. Ci sono voluti 11 giorni ai familiari per recuperare la salma, senza testa, perché nessuno gli ha dato una mano. (…) “Tutto il mondo ci ha dimenticato e si è occupato solo del rilascio del giornalista italiano in cambio di cinque criminali. Sayed e Adjmal lavoravano con lo straniero. Lui è stato liberato e per gli afgani cosa si è fatto?” ci ha detto amaramente Mohammed Dawood il fratello dell’autista ucciso. Adjmal aveva 23 anni e si era sposato da poco. Faceva il giornalista, non solo l’interprete e nelle zone talebane c’era già stato. Non abbastanza per salvarsi la pelle ed evitare di finire in una trappola assieme all’inviato di Repubblica. Con Mastrogiacomo ha diviso le catene ed i dolori del sequestro. (…) Nello scambio con cinque prigionieri talebani detenuti nelle carceri afghane era previsto sia Mastrogiacomo che Adjmal. A tutti e due il capobastone dei tagliagole che li tenevano prigionieri aveva detto “siete liberi”. Invece qualcosa è andato storto e Adjmal non è più tornato a casa. Quando la sua anziana madre ha capito che era ancora ostaggio dei talebani ha avuto un infarto. (…) Per non turbare il successo a metà della liberazione di Mastrogiacomo la grancassa di Repubblica aveva annunciato anche la liberazione di Adjmal e gran parte dei media hanno abboccato all’amo, ma non era vero. Qualche giorno dopo, quando Adjmal mancava tristemente all’appello, sempre Repubblica ha cercato di accreditare la teoria che era stata la sicurezza afghana a farlo sparire per interrogarlo. Anche questa volta non era così. (…) I talebani volevano sfruttare ancora un po’ il povero interprete per tenere sulla graticola il governo di Kabul e quello di Roma, che a parole ha chiesto la liberazione di tutti, ma nei fatti si è portato a casa solo il giornalista italiano. “Sono felice per la liberazione di Daniele, perché la vita di un uomo è stata salvata da un pericolo mortale. Allo stesso tempo sono arrabbiato, perché non ci si è occupati con la stessa attenzione di mio fratello” ci diceva Munir Naskhbandi assieme ad amici e cugini quando il giovane interprete era ancora vivo. Tutti, però, sapevano che il governo del presidente afghano Hamid Karzai non avrebbe più liberato un solo talebano in cambio dell’ostaggio. Per non lasciarsi testimoni afgani alle spalle a dare un’ultima scossa i tagliagole hanno condannato a morte anche Adjmal. La decapitazione di rito è avvenuto un giorno qualsiasi per loro, ma ancora più amaro per noi, la domenica di Pasqua e resurrezione. Attorno ai fantasmi e all’unico sopravissuto di questa storia non mancano le zone d’ombra, che prima o poi andranno chiarite. Rahmattulah Hanefi, l’uomo di fiducia di Emergency, che ha fatto da mediatore è stato arrestato dai servizi segreti afghani il giorno dopo la liberazione di Mastrogiacomo. (…) Il fratello di Sayed Agha, l’autista decapitato, aveva puntato subito il dito contro di lui. Amrullah Saleh il capo dei servizi di Kabul è ancora più duro e dice: “Abbiamo le prove che Hanefi è un facilitatore dei talebani, se non addirittura un loro militante travestito da operatore umanitario”. (…) L’uomo di Emergency avrebbe fatto cadere in una trappola Mastrogiacomo, sarebbe stato una quinta colonna dei tagliagole e avrebbe abbandonato Adjmal al suo destino. Le prove, però, non si vedono e fino a quando non verranno rese note non sapremo se si tratta di una ritorsione contro Emergency troppo blanda con i talebani, oppure un’innominabile verità che schizzerebbe fango su tutti, compreso il governo italiano. Un’altra ombra di questa vicenda è il canale parallelo di mediazione ingaggiato da Repubblica fin dalle prime ore del sequestro. Uno strano free lance italo inglese, Claudio Franco e la sua spalla afgana, hanno mediato per la liberazione. (…) Gino Strada, fondatore di Emergency, sente puzza di servizi segreti e non vuole averne a che fare. La strana coppia rispunta nell’area riservata dell’aeroporto militare di Kabul, quando arriva Mastrogiacomo appena liberato ed in viaggio verso l’Italia. Qualcuno della Nato li ha appena “estratti” dal sud dell’Afghanistan. Franco scatta foto esclusive di Mastrogiacomo mentre sale sul Falcon della presidenza del Consiglio, che lo riporterà a casa. Le immagini non vengono mai pubblicate e sul canale parallelo di mediazione viene steso un velo di silenzio. C‘è voluto un negoziato per avere questa fotografia di Sayed Agha con tre dei suoi cinque bambini. Nell’immagine c’era pure la moglie, ma i familiari, da buoni pasthun, non potevano farla vedere a degli stranieri (…) per di più infedeli. Alla fine hanno tagliato via la moglie e sono rimasti i bambini. Non vedranno più loro padre, morto nella provincia di Helmand, in Afghanistan, (…) per fare l’autista ad un giornalista italiano, Noi preferiamo ricordarlo così, (…) da vivo, con i suoi figli.

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18 maggio 2010 | Matrix | reportage
Morire per Kabul?
La guerra di pace dei soldati italiani, che non possiamo perdere. Nuove offensive, negoziati con i talebani e la speranza del disimpegno fra baruffe politiche e provocazioni. Una trasmissione difficile, mentre gli ultimi due alpini caduti stavano rientrando in patria.

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13 marzo 2011 | Terra! | reportage
Cicatrici
Cicatrici

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26 febbraio 2010 | SBS | intervento
Afghanistan
Bacha bazi: piccoli schiavi del sesso
In Afghanistan molti ragazzini vengono venduti e trasformati in schiavi sessuali da signori della guerra o personaggi facoltosi. I bacha bazi sono minori che vengono vestiti da donna e ballano per un pubblico di soli uomini. Il servizio del giornalista Fausto Biloslavo.

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18 maggio 2005 | Radio 24 | intervento
Afghanistan
Gli americani profanano il Corano. Rivolta in Afghanistan
Una volontaria italiana, Clementina Cantoni, trentaduenne milanese, è stata rapita nel centro di Kabul da quattro uomi armati. La donna è un'operatrice dell'organizzazione umanitaria Care International e si occupa da tre anni di soccorrere le vedove di guerra in Afghanistan. L'avvenimento è stata come una doccia fredda sulle speranze di normalizzazione legate al governo Karzai e all'esportazione di un modello di democrazia partito ormai dal lontano 2001. L'idea di democrazia è stata un progetto vincente? La questione della sicurezza è ancora così spinosa? La situazione afghana è migliorata dopo la sconfitta dei Talebani? Ne parliamo con Gino Strada, chirurgo e fondatore di Emergency, Fausto Biloslavo, giornalista, Alberto Cairo, responsabile in Afghanistan del progetto ortopedico del Comitato internazionale della Croce Rossa Internazionale, Pietro De Carli, responsabile dei programmi di emergenza della cooperazione italiana per il Ministero degli Esteri e Jolanda Brunetti Goetz, ambasciatore responsabile della ricostruzione della sicurezza in Afghanistan.

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12 agosto 2008 | Radio24 | reportage
Afghanistan
Taccuino di guerra - Il prigioniero talebano
Afghanistan,un'estate in trincea. In prima linea con i marines

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11 agosto 2009 | Radio24 | reportage
Afghanistan
Al fronte con gli italiani/ A caccia dei razzi talebani
A caccia di mortai e razzi talebani che colpivano Tobruk, la base più avanzata dei paracadutisti italiani nella famigerata provincia di Farah. E’ questa la missione del 2° plotone Jolly guidato dal maresciallo Cristiano Nicolini, 35 anni, di Ancona. Si esce di notte con i visori notturni montati sull’elmetto che fanno sembrare il paesaggio afghano ancora più lunare di quello che è, con una tinta verdognola. Si va verso Shewan la roccaforte dei talebani, dove gli inosrti hanno scavato tunnel e cunicoli che collegano le case, le postazioni trincerate e spuntano a 300 metri dall’abitato in campo aperto. Come i vietcong. Un reticolo mortale per i parà che da queste parti hanno combattuto battaglie durissime. “Negli ultimi due mesi le trappole esplosive e le imbosctae sono aumentate fortmente, in vista delle elezioni” spiega il maresciallo Nicolini. Per il voto del 20 agosto che eleggerà il nuovo presidente afghano sono previsti 1089 seggi elettorali nel settore ovest del paese controllato dagli italiani. Almeno il 15% è a rischio. I seggi vengono ricavati in scuole e moschee ed i parà li hanno ispezionati tutti nell’ostica provincia di Farah. In alcuni casi neppure esistevano, in un villaggio gli afghani non avevano idea che ci fossero le elezioni e da altre parti non hanno trovato anima disposta a parlare del voto. La maggioranza dei seggi, però, sarà aperta con l’aiuto della Folgore. Fausto Biloslavo da base Tobruk, Afghanistan occidentale per Radio 24 Il Sole 24 ore

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07 febbraio 2005 | Radio 24 | intervento
Afghanistan
A Baghdad il sequestro di Giuliana Sgrena
Giuliana Sgrena, giornalista de Il Manifesto, è sotto sequestro in Iraq. Sulla vicenda, che riapre le ansie che l'Italia ha già vissuto per Simona Pari e Simona Torretta oltre che per gli altri rapiti italiani, torna la trasmissione di Giuseppe Cruciani per cercare di analizzare la matrice del rapimento, le sorti dell'ostaggio e i possibili sviluppi. Ospiti Alberto Negri, Fausto Biloslavo, Valentino Parlato, e Toni Capuozzo.

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