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18 marzo 2020 - Esteri - Italia - Panorama
Contractors quegli italiani in zona di guerra
“Ricordo un razzo Rpg volare nella mia direzione. Rimango paralizzato fino al momento in cui ci “sfila di poppa” di pochi centimetri, come un siluro che sfiora una nave…” racconta Cristiano Meli, il veterano dei contractor italiani. Né fantasiosi Rambo, né mercenari senza scrupoli, ma professionisti della sicurezza al servizio di compagnie private in mezzo mondo dall’Afghanistan alla Libia fino alla Nigeria. “Solo quando sento il bang del razzo che si schianta contro la parete di roccia che chiude la strada, mi risveglio e comincio ad annaffiare il nemico di traccianti” racconta a Panorama il genovese di 45 anni, che si è fatto le ossa in Iraq. Meli, negli anni ruggenti del dopo Saddam è finito in nove “contatti” come chiama gli scontri a fuoco con gli insorti. “Erano tempi in cui al mattino scambiavi due chiacchiere con il collega sotto le docce comuni e prima di mezzogiorno ne stavi raccogliendo i pezzi o raschiando via il sangue dal parabrezza” spiega il contractor. Di soldati privati in Iraq dal 2004 al 2007 ne sono passati 15mila e 800-900 sono caduti in imboscate o spappolati dalle trappole esplosive garantendo scorte e sicurezza. Meli, ex sottufficiale della Marina militare, poi arruolato nella Legione straniera ha vissuto il periodo d’oro dei contractor in Iraq battezzato come “il selvaggio Far West”. Oggi è consulente per la sicurezza in Nigeria, ma la cicatrice sullo zigomo sinistro non gli farà mai dimenticare il sangue e la polvere di Baghdad. “Il nostro convoglio di 3 veicoli viene attaccato prima da destra, poi anche dal lato sinistro - racconta Meli - Mentre sto rispondendo al fuoco con la coda dell’occhio vedo un paio di ribelli con una mitragliatrice, proprio sul bordo del cavalcavia che cominciano a vomitare piombo su di noi”. Un colpo gli arriva in faccia. “La palla, che era progettata per frantumarsi all’interno del mio teschio, per qualche motivo mi esplode sugli occhiali balistici” spiega il veterano. Il piombo in mille pezzi gli apre dozzine di ferite sulle braccia. E un pezzo del proiettile si conficca nello zigomo. L’uomo spendibile, come viene chiamato in gergo, chi sta sul retro dei mezzi con il portellone aperto e la mitragliatrice puntata “è stato meno fortunato”. Si chiama Fellah ed è iracheno: “Una palla passa il tettuccio e gli apre la testa. Quando ci siamo fermati dopo circa un chilometro, stava ancora agonizzando. Ci ha messo un po’ a morire”.
Un altro contractor a cadere al fianco dell’italiano è un giovane parà americano, Chris Kilpatrick, 26 anni. “Il primo proiettile lo spegne come una bambola sulla strada fra Kirkuk e Beiji - spiega Meli - La pressione ha spinto il cervello a far esplodere una parte del cranio come un tappo di spumante. Ho raccolto tutto alla meglio per metterlo nel sacco nero assieme al corpo. Chris sorrideva ancora”.
Oggi il “Far West” iracheno non esiste più, ma un pugno di contractor italiani sono ancora in prima linea sul fronte della sicurezza nelle aree di crisi. Panorama li ha cercati per raccontare le loro storie da film. “Doc” è il nomignolo di un ex parà, che da dieci anni lavora in Iraq nelle scorte per il personale dell’Eni. “Green light, stiamo partendo dalla base. Cliente a bordo, in sicurezza, comunicazioni funzionanti, portiere chiuse. Confermata destinazione X. Ready to go” è la procedura ripetuta mille volte dal contractor che viene dal Nord Italia. “In caso di imboscata il mio compito non è ingaggiare il nemico, ma far da scudo umano al cliente salvandogli la pelle ad ogni costo” spiega Doc. “Italiani validi in questo campo siamo una decina. Devi avere esperienza operativa, conoscere bene l’inglese e così pazzo da mollare le forze armate per diventare un contractor” sottolinea l’italiano, che si è laureato in geopolitica. Fino a qualche anno fa si guadagnava anche 10.000-15mila dollari al mese con ferie nel Sud Est asiatico “per ricaricare le batterie”. Adesso si arriva a mala pena a 200 dollari al giorno. Il mercato è in mano a inglesi, americani, sudafricani ed i francesi nelle loro ex colonie africane. Gli italiani seri sono pochi spiega Doc: “Girano tanti cialtroni che si improvvisano contractor dopo aver smanettato con Call of duty” un famoso video gioco combat.
Andy Costa, fotografo per passione, ha avuto il suo battesimo del fuoco in Kosovo con i lagunari. Sul tetto della casa di un’anziana serba che i nostri soldati proteggevano dalla vendette albanesi un proiettile gli è sibilato vicino alla testa. La divisa gli sta stretta e scopre il mondo dei contractor quando Fabrizio Quattrocchi bendato e costretto ad inginocchiarsi in una buca in Iraq sfida i boia dicendo “vi faccio vedere come muore un italiano”. Un soldato privato coraggioso bollato da una parte d’Italia come mercenario, ma il presidente Carlo Azeglio Ciampi nel 2006 lo ha onorato con la medaglia d’oro al valor civile. L’ultimo ingaggio nelle scorte in Afghanistan, Andy continua a ripetere il sabato sera agli amici che gli chiedono se ha paura “che ci sono più morti nei fine settimana sulle strade italiane”. Nella base inglese a Bassora, in Iraq, non mancavano i colpi di mortaio. “Suona la sirena e una voce metallica ripete per tre volte dagli altoparlanti “incoming” sta arrivando - spiega il contractor veneto - Corriamo tutti nei rifugi e spesso i tiri sono imprecisi, ma una volta la granata è piombata sulla mensa. Ricordo il boato dell’esplosione e la terra che tremava sotto i piedi. Due soldati americani sono stati uccisi”.
Costa ha lavorato in una dozzina di postacci a rischio ingaggiato anche da un’azienda italiana a Dacca, in Bangladesh, dopo che nove connazionali sono stati sgozzati da una cellula jihadista nel 2016. “Si valuta il rischio - spiega - osservando dove si trovano gli uffici, le abitazioni e quali sono i tragitti dei dipendenti. Poi fornisco consigli e procedure di sicurezza per evitare attacchi terroristici, sequestri o semplici rapine”.
In Pakistan ha scortato il personale di una grande fondazione filantropica americana. “A Karachi adottavo il basso profilo. Al posto dei fuoristrada blindati, utilitarie locali e per mimetizzarsi facevo indossare ai clienti la tunica ed i pantaloni a sbuffo dei pachistani. Il rischio costante erano i rapimenti” racconta l’esperto di sicurezza.
Sul fronte di guerra ucraina del Donbass, nel cuore d’Europa, Costa  è stato un osservatore dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) per monitorare il rispetto del cessate il fuoco, che spesso esiste solo sulla carta. “Fuoristrada bianchi con la bandiera della Osce, elmetto, giubbotto antiproiettile e rigorosamente disarmati riportavamo i tiri di artiglieria, mortai e cari armati lungo la linea del fronte” racconta Andy. Non solo dai punti di osservazione, ma anche grazie ai droni pilotati a distanza da specialisti americani. “Il mio compito era individuare dall’alto le armi pesanti o truppe in movimento - spiega - Il drone fotografava le vampate bianca delle cannonate oppure le esplosioni dei tiri di artiglieria in arrivo. Sembrava una specie di Risiko dal vero”.
Il business della sicurezza privata nelle zone a rischio nel mondo è di 250 miliardi di dollari e si stanno affacciando con spregiudicatezza sul mercato anche società russe e cinesi. In Italia ci sarebbe bisogno di una legislazione adeguata e un radicale cambiamento culturale per avviare un settore che possa competere con gli anglosassoni nella protezione delle nostre aziende e interessi nazionali in zone instabili.
Alcune società italiane di vigilanza si limitano a fornire personale di protezione sulle navi mercantili contro gli attacchi dei pirati. Emmanuele Caglioni, milanese classe 1981, ha avuto il suo battesimo del fuoco in Afghanistan come parà del 185° reggimento acquisizione obiettivi. Una volta congedato ha aperto una ditta di traslochi, ma non  faceva per lui. “Così mi sono ritrovato a bordo dei mercantili italiani al largo della Somalia in servizio anti pirateria”  racconta Caglioni. Il caposquadra guadagna 150 euro al giorno, ma solo nei tratti di mare a rischio. Per respingere gli attacchi ci sono precise regola d’ingaggio: “Quando avvisti i barchini con il binocolo o sul radar prima lanci un fumogeno, poi attivi le sirene e il timoniere comincia ad andare a zig zag. Alla fine spari con i fucili mitragliatori in dotazione”. Caglioni ha respinto tre attacchi con uno sciame di 5 o 6 barchini al largo della Somalia zeppi di pirati. “Erano armati anche di lanciarazzi Rpg e hanno pure provato a sparare qualche colpo di kalashnikov - racconta l’ex parà -  Tiri ben piazzati davanti ai barchini hanno sempre convinto i pirati a invertire la rotta”.
M. P. vive in una zona rossa per il coronavirus del Nord. Fin da giovane voleva fare il soldato e girare il mondo. A 18 anni si è arruolato nella Folgore per poi transitare nella Legione straniera. Da contractor passa tre anni in Nigeria responsabile della sicurezza di una cittadella della Chevron dove vivevano duemila espatriati compresi centinaia di italiani. La zona è infestata dai ribelli del Movimento per l\\\'emancipazione del delta del Niger. “Dentro il campo scoppiavano rivolte e fuori sabotavano gli oleodotti oppure rapivano gli stranieri, ma per fortuna non erano tagliagole jihadisti, ma guerriglieri cristiani che puntavano al riscatto” racconta il mastino della sicurezza.
Dopo l’avventura africana il contratto d’oro, da 9000 dollari al mese con ferie pagate la metà, arriva da un miliardario indiano, che ingaggia 20 stranieri soprattutto sudafricani e 50 guardie armate locali. “Comandavo gli indiani e mi occupavo di executive protection di J, la lettera in codice che usavamo per la moglie del miliardario” spiega il contractor. M. P. lavora sodo, ma in una specie di bolla “da mille una notte”. Il miliardario ha uno yacht a Majorca, un jet privato per i spostamenti e residenze da sogno in giro per il  mondo. “Girava con macchine da super lusso come Rolls-Royce o Bentley e da Dubai agli Stati Uniti  Singapore era una vita di viaggi e feste” ricorda l’italiano. “Per non parlare delle amiche della signora, le bellissime attrici di Bollywood - ricorda M. P. - Di notte folleggiavano e di giorno andavano a fare shopping”.
Dopo tre anni il richiamo della foresta lo riporta in zona di guerra. In Libia assieme ad Andy protegge gli osservatori dell’Unione europea per le elezioni. “Un giorno all’aeroporto di Tripoli sembrava una giornata tranquilla - ricorda M. P. - A un certo punto sono spariti tutti ed è scoppiata una battaglia fra milizie. Un razzo Rpg è esploso sopra le nostre teste”.
Fausto Biloslavo
[continua]

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12 maggio 2020 | Tg5 | reportage
L'infermiera sopravvissuta al virus
L’infermiera ha contratto il virus da un paziente anziano nell’ospedale Maggiore di Trieste A casa non riusciva più a respirare ed è stata trasportata d’urgenza in ospedale Il figlio, soldato della Nato, era rimasto bloccato sul fronte baltico dall’emergenza virus con l’appartamento pieno di medicine l’incubo del contagio non l’abbandonerà mai Due mesi dopo il contagio Svetlana è negativa al virus ma ancora debole e chiusa in casa

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16 febbraio 2007 | Otto e Mezzo | reportage
Foibe, conflitto sulla storia
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14 maggio 2020 | Tg5 | reportage
Trieste, Lampedusa del Nord Est
Fausto Biloslavo TRIESTE - Il gruppetto è seduto sul bordo della strada asfaltata. Tutti maschi dai vent’anni in su, laceri, sporchi e inzuppati di pioggia sembrano sfiniti, ma chiedono subito “dov’è Trieste?”. Un chilometro più indietro passa il confine con la Slovenia. I migranti illegali sono appena arrivati, dopo giorni di marcia lungo la rotta balcanica. Non sembra il Carso triestino, ma la Bosnia nord occidentale da dove partono per arrivare a piedi in Italia. Scarpe di ginnastica, tute e qualche piumino non hanno neanche uno zainetto. Il più giovane è il capetto della decina di afghani, che abbiamo intercettato prima della polizia. Uno indossa una divisa mimetica probabilmente bosniaca, un altro ha un barbone e sguardo da talebano e la principale preoccupazione è “di non venire deportati” ovvero rimandati indietro. Non sanno che la Slovenia, causa virus, ha sospeso i respingimenti dall’Italia. Di nuovo in marcia i migranti tirano un sospiro di sollievo quando vedono un cartello stradale che indica Trieste. Il capetto alza la mano in segno di vittoria urlando da dove viene: “Afghanistan, Baghlan”, una provincia a nord di Kabul. Il 12 maggio sono arrivati in 160 in poche ore, in gran parte afghani e pachistani, il picco giornaliero dall’inizio dell’anno. La riapertura della rotta balcanica sul fronte del Nord Est è iniziata a fine aprile, in vista della fase 2 dell’emergenza virus. A Trieste sono stati rintracciati una media di 40 migranti al giorno. In Bosnia sarebbero in 7500 pronti a partire verso l’Italia. Il gruppetto di afghani viene preso in carico dai militari del reggimento Piemonte Cavalleria schierato sul confine con un centinaio di uomini per l’emergenza virus. Più avanti sullo stradone di ingresso in città, da dove si vede il capoluogo giuliano, la polizia sta intercettando altri migranti. Le volanti con il lampeggiante acceso “scortano” la colonna che si sta ingrossando con decine di giovani stanchi e affamati. Grazie ad un altoparlante viene spiegato in inglese di stare calmi e dirigersi verso il punto di raccolta sul ciglio della strada in attesa degli autobus per portarli via. Gli agenti con le mascherine controllano per prima cosa con i termometri a distanza la temperatura dei clandestini. Poi li perquisiscono uno ad uno e alla fine distribuiscono le mascherine ai migranti. Alla fine li fanno salire sugli autobus dell’azienda comunale dei trasporti cercando di non riempirli troppo per evitare focolai di contagio. “No virus, no virus” sostiene Rahibullah Sadiqi alzando i pollici verso l’alto in segno di vittoria. L’afghano è partito un anno fa dal suo paese e ha camminato per “dodici giorni dalla Bosnia, attraverso la Croazia e la Slovenia fino all’Italia”. Seduto per terra si è levato le scarpe e mostra i piedi doloranti. “I croati mi hanno rimandato indietro nove volte, ma adesso non c’era polizia e siamo passati tutti” spiega sorridendo dopo aver concluso “il gioco”, come i clandestini chiamano l’ultimo tratto della rotta balcanica. “Abbiamo registrato un crollo degli arrivi in marzo e per gran parte di aprile. Poi un’impennata alla fine dello scorso mese fino a metà maggio. L’impressione è che per i paesi della rotta balcanica nello stesso periodo sia avvenuta la fine del lockdown migratorio. In pratica hanno aperto i rubinetti per scaricare il peso dei flussi sull’Italia e sul Friuli-Venezia Giulia in particolare creando una situazione ingestibile anche dal punto di vista sanitario. E’ inaccettabile” spiega l'assessore regionale alla Sicurezza Pierpaolo Roberti, che punta il dito contro la Slovenia. Lorenzo Tamaro, responsabile provinciale del Sindacato autonomo di polizia, denuncia “la carenza d’organico davanti all’emergenza dell’arrivo in massa di immigrati clandestini. Rinnoviamo l’appello per l’invio di uomini in rinforzo alla Polizia di frontiera”. In aprile circa il 30% dei migranti che stazionavano in Serbia è entrato in Bosnia grazie alla crisi pandemica, che ha distolto uomini ed energie dal controllo dei confini. Nella Bosnia occidentale non ci sono più i campi di raccolta, ma i migranti bivaccano nei boschi e passano più facilmente in Croazia dove la polizia ha dovuto gestire l’emergenza virus e pure un terremoto. Sul Carso anche l’esercito impegnato nell’operazione Strade sicure fa il possibile per tamponare l’arrivo dei migranti intercettai pure con i droni. A Fernetti sul valico con la Slovenia hanno montato un grosso tendone mimetico dove vengono portati i nuovi arrivati per i controlli sanitari. Il personale del 118 entra con le protezioni anti virus proprio per controllare che nessuno mostri i sintomi, come febbre e tosse, di un possibile contagio. Il Sap è preoccupato per l’emergenza sanitaria: “Non abbiamo strutture idonee ad accogliere un numero così elevato di persone. Servono più ambienti per poter isolare “casi sospetti” e non mettere a rischio contagio gli operatori di Polizia. Non siamo nemmeno adeguatamente muniti di mezzi per il trasporto dei migranti con le separazioni previste dall’emergenza virus”. Gli agenti impegnati sul terreno non sono autorizzati a parlare, ma a denti stretti ammettono: “Se va avanti così, in vista della bella stagione, la rotta balcanica rischia di esplodere. Saremo travolti dai migranti”. E Trieste potrebbe trasformarsi nella Lampedusa del Nord Est.

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27 gennaio 2020 | Radio 1 Italia sotto inchiesta | intervento
Italia
Esercito e siti ebraici
Fausto Biloslavo I nostri soldati rispettano la giornata della Memoria dell’Olocausto non solo il 27 gennaio, ma tutto l’anno. L’esercito, con l’operazione Strade sicure, schiera 24 ore al giorno ben 700 uomini in difesa di 58 siti ebraici sul territorio nazionale. Tutti obiettivi sensibili per possibile attentati oppure oltraggi anti semiti. “Per ora non è mai accaduto nulla anche grazie alla presenza dei militari, che serve da deterrenza e non solo. Il senso di sicurezza ha evitato episodi di odio e minacce ripetute come in Francia, che rischiano di provocare un esodo della comunità ebraica” spiega una fonte militare de il Giornale. I soldati, che si sono fatti le ossa all’estero, sorvegliano, quasi sempre con presidi fissi, 32 sinagoghe o tempi ebraici, 9 scuole, 4 musei e altri 13 siti distribuiti in tutta Italia, ma soprattutto al nord e al centro. La città con il più alto numero di obiettivi sensibili, il 41%, è Milano. Non a caso il comandante del raggruppamento di Strade sicure, come in altre città, è ufficialmente invitato alle celebrazioni del 27 gennaio, giorno della Memoria. Lo scorso anno, in occasione dell’anniversario della nascita dello Stato di Israele, il rappresentante della comunità ebraica di Livorno, Vittorio Mosseri, ha consegnato una targa al comandante dei paracadustisti. “Alla brigata Folgore con stima e gratitudine per il servizio di sicurezza prestato nell’ambito dell’operazione Strade sicure contribuendo con attenzione e professionalità al sereno svolgimento delle attività della nostro comunità” il testo inciso sulla targa. In questi tempi di spauracchi anti semiti l’esercito difende i siti ebraici in Italia con un numero di uomini praticamente equivalente a quello dispiegato in Afghanistan nel fortino di Herat. Grazie ad un’esperienza acquisita all’estero nella protezione delle minoranze religiose, come l’antico monastero serbo ortodosso di Decani in Kosovo. “In ogni città dove è presente la comunità ebraica esiste un responsabile della sicurezza, un professionista che collabora con le forze dell’ordine ed i militari per coordinare al meglio la vigilanza” spiega la fonte del Giornale. Una specie di “assessore” alla sicurezza, che organizza anche il sistema di sorveglianza elettronica con telecamere e sistemi anti intrusione di avanguardia su ogni sito. Non solo: se in zona appare un simbolo o una scritta anti semita, soprattuto in arabo, viene subito segnalata, fotografata, analizzata e tradotta. “I livelli di allerta talvolta si innalzano in base alla situazione internazionale” osserva la fonte militare. L’ultimo allarme ha riguardato i venti di guerra fra Iran e Stati Uniti in seguito all’eliminazione del generale Qassem Soleimani. Roma è la seconda città per siti ebraici presidiati dai militari compresi asili, scuole e oratori. Le sinagoghe sono sorvegliate pure a Napoli, Verona, Trieste e quando necessario vengono disposte le barriere di cemento per evitare attacchi con mezzi minati o utilizzati come arieti. A Venezia i soldati garantiscono la sicurezza dello storico ghetto. A Livorno e in altre città sono controllati anche i cimiteri ebraici. Una residenza per anziani legata alla comunità è pure nella lista dei siti protetti a Milano. Ed i militari di Strade sicure nel capoluogo lombardo non perdono d’occhio il memoriale della Shoah, lo sterminio degli ebrei voluto da Hitler.

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