
|
Articolo
01 aprile 2020 - Interni - Italia - Panorama |
|
| L’interesse di Pechino dietro la retorica degli aiuti |
E adesso dobbiamo ringraziare la Cina? Non si può nemmeno dire che il virus è cinese e l’arrivo di tre pattuglie di medici con un po’ di materiale sanitario in dono dovrebbe farci dimenticare da dove arriva il flagello. Per non parlare della retorica degli “aiuti” del governo di Pechino all’Italia propagandata dal campione della sindrome di Stoccolma sul virus, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio. In realtà, come ha appurato Panorama con la stessa Farnesina, il grosso della mascherine le paghiamo e pure un prezzo salato, più del doppio rispetto a dicembre prima dell’emergenza virus. Stesso discorso vale per i ventilatori polmonari, che servono come il pane. Una manciata in regalo e gli altri venduti “in base ai principi di mercato” ha spiegato Li Junhua, ambasciatore cinese a Roma. Niente di male se non fosse per il fatto che i mandarini comunisti di Pechino vogliono ribaltare la frittata depistando dall’origine cinese del virus e presentandosi come salvatori grazie ad una subdola “diplomazia della gratitudine”. La retorica degli “aiuti” è scattata con l’emergenza mascherine. Il ministro Di Maio comincia ad annunciare l’arrivo dalla Cina di milioni di mascherine e migliaia di ventilatori polmonari per le terapie intensive. E mescola le carte parlando di “aiuti”. A Domenica in, il 22 marzo, spiega che la valanga di forniture “sono la dimostrazione che l\'Italia non è sola e che coltivare certe amicizie sta pagando perchè la Via della Seta (il grande e discusso progetto di penetrazione infrastrutturale ed economico cinese verso l’Europa nda) che abbiamo firmato con la Cina, ma anche l\'approccio di guardare a tutto il mondo, oggi stanno permettendo al nostro paese di avere questi aiuti”. In realtà sono poche le mascherine regalate direttamente dal governo cinese rispetto a quelle che stiamo comprando a prezzo maggiorato. Lo stesso Di Maio, il 24 marzo in un’intervista al Fatto quotidiano, spiega che “abbiamo chiuso un contratto con la Cina per ottenere 20 milioni di mascherine a settimana, per un primo lotto da 100 milioni”. Secondo la Farnesina, interpellata da Panorama, le mascherine più tecnologiche (N 95 o Ffp3) che fermano il virus costano 1 euro e 50 a pezzo. Quelle chirurgiche 29 centesimi. “In questo momento di emergenza sono prezzi che non si possono rifiutare, ma solo a dicembre sarebbero stati considerati una follia” spiega un esperto del settore. Il prezzo di vendita corretto, prima dell’emergenza, era di 80-90 centesimi di euro per le vere mascherine protettive e appena 10 centesimi per le altre. In pratica i cinesi “aiutano” l’Italia vendendole quasi al doppio e al triplo. Di Maio ha annunciato che nell’attesa del grosso delle forniture a pagamento “verranno donate dalla Cina 3 milioni di mascherine e 200 ventilatori polmonari”. Nel frattempo la holding della famiglia Rovati per regalare 260 ventilatori all’ospedale che si sta mettendo in piedi alla fiera di Milano ha sborsato 2 milioni di euro a un’azienda cinese. I conti, per ora, non tornano se teniamo conto del decantato arrivo del primo cargo dalla Cina del 24 marzo coordinato dall’ambasciata italiana a Pechino. A bordo 155 ventilatori, 1.100.000 mascherine protettive, 305.000 monouso, 205.000 guanti di lattice, 1000 kit diagnostici e altrettante tute. Il materiale, secondo il comunicato della nostra ambasciata, “è in parte acquistato della Protezione civile, da diverse aziende” italiane e locali e solo “in parte donato dal Governo cinese”. Lo stesso giorno Di Maio a Tg2 Post si spreca in ringraziamenti a Pechino ribadendo che \"investire nell\'amicizia con la Cina ci ha permesso di salvare vite”. E viene ripreso addirittura da esponenti del Pd, come Andrea Romano, deputato della Commissione esteri, che scrive su twitter: “Lo strabordante entusiasmo di Luigi Di Maio verso la \"spontanea e disinteressata amicizia della Cina\" comincia ad essere imbarazzante (persino per il regime cinese…)\". Il 22 marzo nel pieno della campagna di ringraziamento del governo italiano a Pechino i media cinesi cercavano di coinvolgere l’Italia nella campagna per dimostrare che il virus non ha infettato il mondo dalla Cina. Il Global Times giornale in inglese affiliato al Quotidiano del Popolo, organo ufficiale del partito comunista, rilanciava una frase di Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Bergamo: “I nostri medici di base ricordano di aver visto casi gravi e strani di polmonite tra i loro pazienti a dicembre e già a novembre”. Solo il 31 dicembre il governo cinese ha informato l’Organizzazione mondiale della sanità del contagio, in realtà scoppiato da tempo. Il titolo del Global Times non lascia dubbi: “L’epidemia si è sviluppata prima che in Cina” ovvero in Italia. Stessa tattica usata contro gli Stati Uniti per cercare di accreditare una fantasiosa pista americana sull’origine del virus. Non solo: le tv di Pechino sono riuscite a mandare in onda immagini dei flash mob dai balconi italiani con la gente che cantava l’inno di Mameli sovrastato da quello cinese. E sui social gira la mappa dello stivale, in rosso, con infermiere cinesi che lo sostengono. Se il governo italiano ringrazia la Cina e dimentica da dove è arrivato il virus, il presidente americano Donald Trump parla chiaro. Il 19 marzo lo stesso comandante in capo cancella su un discorso che gli avevano preparato la parola coronavirus scrivendo con il pennarello nero virus “cinese”. In conferenza stampa lo accusano addirittura di razzismo, ma Trump ribadisce che il morbo \"è partito dalla Cina sfuggendo ad ogni controllo”. Pechino protesta duramente parlando di “marchio infamante”. E gli ambasciatori dei mandarini comunisti in diversi paesi intimano ai giornalisti “altamente irresponsabili” di non usare il termine “virus cinese”. In aiuto alla Casa bianca arrivano illustri esponenti del partito repubblicano, come Tom Cotton, veterano di Afghanistan e Iraq, senatore dell’Arkansas: \"Le bugie e la corruzione del partito comunista cinese hanno trasformato un problema sanitario locale in una pandemia globale\". Accuse tabù in Italia, dove il pronto soccorso di Pechino viene monitorato con sospetto dall’ambasciata Usa. Il 16 marzo il primo ministro Giuseppe Conte, parla con il presidente cinese Xi Jinping. Durante la telefonata Xi dice che è pronto a collaborare con l’Italia per sconfiggere l’epidemia nel nome di una “Via della seta della salute””. Evidente il riferimento al grande progetto di penetrazione in Europa. Non è un caso che il fondo governativo della Via della seta, azionista di Autostrade per l\'Italia e Pirelli, abbia donato 20mila test per il virus e 20mila mascherine in scatoloni con lo slogan \"la Via dell\'Amicizia non ha confini”. Il presidente dell\'Autorità portuale, Zeno d’Agostino, un altro che si è dimenticato come il virus sia cinese, ha annunciato con orgoglio: “In un momento di difficoltà per il reperimento delle protezioni individuali vince la generosità della Cina”. La potente China Communications Construction Company un anno fa era sbarcata proprio nel porto di Trieste, porta d’ingresso marittimo in Europa, grazie all’accordo con Pechino firmato dal primo governo Conte. In piena emergenza mascherine la Cccc ne ha fatte arrivare 10mila per i lavoratori dello scalo giuliano. In prima linea nella “diplomazia della gratitudine” anche le discusse compagnie telefoniche cinesi. Huawei ha donato 200mila mascherine agli ospedali di Milano e guarda caso si è offerta di mettere a disposizione la rete 5G “per le connessioni tra ospedali, unità di crisi, pazienti e famiglie”. Fausto Biloslavo ha collaborato da New York Valeria Robecco |
| |
|
video
|
|
|
23 aprile 2012 | Premio Lago | reportage
Il premio Giorgio Lago: Arte, impresa, giornalismo, volontariato del Nord Est
Motivazione della Giuria: Giornalista di razza. Sempre sulla notizia, esposto in prima persona nei vari teatri di guerra del mondo. Penna sottile, attenta, con un grande amore per la verità raccontata a narrare le diverse vicende dell’uomo.
|
|
|
|
|
31 ottobre 2021 | Quarta repubblica | reportage
No vax scontri al porto
I primi lacrimogeni rimbalzano sull'asfalto e arditi No Pass cercano di ributtarli verso il cordone dei carabinieri che sta avanzando per sgomberare il varco numero 4 del porto di Trieste. I manifestanti urlano di tutto «merde, vergogna» cercando pietre e bottiglie da lanciare contro le forze dell'ordine. Un attivista ingaggia lo scontro impossibile e viene travolto dalle manganellate. Una volta crollato a terra lo trascinano via oltre il loro cordone. Scene da battaglia urbana, il capoluogo giuliano non le vedeva da decenni.
Portuali e No Pass presidiavano da venerdì l'ingresso più importante dello scalo per protestare contro l'introduzione obbligatoria del lasciapassare verde. In realtà i portuali, dopo varie spaccature, sono solo una trentina. Gli altri, che arriveranno fino a 1.500, sono antagonisti e anarchici, che vogliono la linea dura, molta gente venuta da fuori, più estremisti di destra.
Alle 9 arrivano in massa le forze dell'ordine con camion-idranti e schiere di agenti in tenuta antisommossa. Una colonna blu che arriva da dentro il porto fino alla sbarra dell'ingresso. «Lo scalo è porto franco. Non potevano farlo. È una violazione del trattato pace (dello scorso secolo, nda)» tuona Stefano Puzzer detto Ciccio, il capopopolo dei portuali. Armati di pettorina gialla sono loro che si schierano in prima linea seduti a terra davanti ai cordoni di polizia. La resistenza è passiva e gli agenti usano gli idranti per cercare di far sloggiare la fila di portuali. Uno di loro viene preso in pieno da un getto d'acqua e cade a terra battendo la testa. Gli altri lo portano via a braccia. Un gruppo probabilmente buddista prega per evitare lo sgombero. Una signora si avvicina a mani giunte ai poliziotti implorando di retrocedere, ma altri sono più aggressivi e partono valanghe di insulti.
Gli agenti avanzano al passo, metro dopo metro. I portuali fanno da cuscinetto per tentare di evitare incidenti più gravi convincendo la massa dei No Pass, che nulla hanno a che fare con lo scalo giuliano, di indietreggiare con calma. Una donna alza le mani cercando di fermare i poliziotti, altri fanno muro e la tensione sale alimentata dal getto degli idranti. «Guardateci siamo fascisti?» urla un militante ai poliziotti. Il nocciolo duro dell'estrema sinistra seguito da gran parte della piazza non vuole andarsene dal porto. Quando la trattativa con il capo della Digos fallisce la situazione degenera in scontro aperto. Diego, un cuoco No Pass, denuncia: «Hanno preso un mio amico, Vittorio, per i capelli, assestandogli una manganellata in faccia». Le forze dell'ordine sgomberano il valico, ma sul grande viale a ridosso scoppia la guerriglia. «Era gente pacifica che non ha alzato un dito - sbotta Puzzer - È un attacco squadrista». I più giovani sono scatenati e spostano i cassonetti dell'immondizia per bloccare la strada scatenando altre cariche degli agenti.
Donne per nulla intimorite urlano «vergognatevi» ai carabinieri, che rimangono impassibili. In rete cominciano a venire pubblicati post terribili rivolti agli agenti: «Avete i giorni contati. Se sai dove vivono questi poliziotti vai a ucciderli».Non a caso interviene anche il presidente Sergio Mattarella: «Sorprende e addolora che proprio adesso, in cui vediamo una ripresa incoraggiante esplodano fenomeni di aggressiva contestazione». Uno dei portuali ammette: "Avevamo detto ai No Pass di indietreggiare quando le forze dell'ordine avanzavano ma non ci hanno ascoltati. Così la manifestazione pacifica è stata rovinata».
Puzzer raduna le «truppe» e i rinforzi, 3mila persone, in piazza Unità d'Italia. E prende le distanze dagli oltranzisti: «Ci sono gruppi che non c'entrano con noi al porto che si stanno scontrando con le forze dell'ordine». Non è finita, oltre 100 irriducibili si scatenano nel quartiere di San Vito. E riescono a bloccare decine di camion diretti allo scalo con cassonetti dati alle fiamme in mezzo alla strada. Molti sono vestiti di nero con il volto coperto simili ai black bloc. La battaglia sul fronte del porto continua fino a sera.
|
|
|
|
|
14 maggio 2020 | Tg5 | reportage
Trieste, Lampedusa del Nord Est
Fausto Biloslavo
TRIESTE - Il gruppetto è seduto sul bordo della strada asfaltata. Tutti maschi dai vent’anni in su, laceri, sporchi e inzuppati di pioggia sembrano sfiniti, ma chiedono subito “dov’è Trieste?”. Un chilometro più indietro passa il confine con la Slovenia. I migranti illegali sono appena arrivati, dopo giorni di marcia lungo la rotta balcanica. Non sembra il Carso triestino, ma la Bosnia nord occidentale da dove partono per arrivare a piedi in Italia. Scarpe di ginnastica, tute e qualche piumino non hanno neanche uno zainetto. Il più giovane è il capetto della decina di afghani, che abbiamo intercettato prima della polizia. Uno indossa una divisa mimetica probabilmente bosniaca, un altro ha un barbone e sguardo da talebano e la principale preoccupazione è “di non venire deportati” ovvero rimandati indietro. Non sanno che la Slovenia, causa virus, ha sospeso i respingimenti dall’Italia. Di nuovo in marcia i migranti tirano un sospiro di sollievo quando vedono un cartello stradale che indica Trieste. Il capetto alza la mano in segno di vittoria urlando da dove viene: “Afghanistan, Baghlan”, una provincia a nord di Kabul.
Il 12 maggio sono arrivati in 160 in poche ore, in gran parte afghani e pachistani, il picco giornaliero dall’inizio dell’anno. La riapertura della rotta balcanica sul fronte del Nord Est è iniziata a fine aprile, in vista della fase 2 dell’emergenza virus. A Trieste sono stati rintracciati una media di 40 migranti al giorno. In Bosnia sarebbero in 7500 pronti a partire verso l’Italia.
Il gruppetto di afghani viene preso in carico dai militari del reggimento Piemonte Cavalleria schierato sul confine con un centinaio di uomini per l’emergenza virus. Più avanti sullo stradone di ingresso in città, da dove si vede il capoluogo giuliano, la polizia sta intercettando altri migranti. Le volanti con il lampeggiante acceso “scortano” la colonna che si sta ingrossando con decine di giovani stanchi e affamati. Grazie ad un altoparlante viene spiegato in inglese di stare calmi e dirigersi verso il punto di raccolta sul ciglio della strada in attesa degli autobus per portarli via. Gli agenti con le mascherine controllano per prima cosa con i termometri a distanza la temperatura dei clandestini. Poi li perquisiscono uno ad uno e alla fine distribuiscono le mascherine ai migranti. Alla fine li fanno salire sugli autobus dell’azienda comunale dei trasporti cercando di non riempirli troppo per evitare focolai di contagio. “No virus, no virus” sostiene Rahibullah Sadiqi alzando i pollici verso l’alto in segno di vittoria. L’afghano è partito un anno fa dal suo paese e ha camminato per “dodici giorni dalla Bosnia, attraverso la Croazia e la Slovenia fino all’Italia”. Seduto per terra si è levato le scarpe e mostra i piedi doloranti. “I croati mi hanno rimandato indietro nove volte, ma adesso non c’era polizia e siamo passati tutti” spiega sorridendo dopo aver concluso “il gioco”, come i clandestini chiamano l’ultimo tratto della rotta balcanica.
“Abbiamo registrato un crollo degli arrivi in marzo e per gran parte di aprile. Poi un’impennata alla fine dello scorso mese fino a metà maggio. L’impressione è che per i paesi della rotta balcanica nello stesso periodo sia avvenuta la fine del lockdown migratorio. In pratica hanno aperto i rubinetti per scaricare il peso dei flussi sull’Italia e sul Friuli-Venezia Giulia in particolare creando una situazione ingestibile anche dal punto di vista sanitario. E’ inaccettabile” spiega l'assessore regionale alla Sicurezza Pierpaolo Roberti, che punta il dito contro la Slovenia.
Lorenzo Tamaro, responsabile provinciale del Sindacato autonomo di polizia, denuncia “la carenza d’organico davanti all’emergenza dell’arrivo in massa di immigrati clandestini. Rinnoviamo l’appello per l’invio di uomini in rinforzo alla Polizia di frontiera”.
In aprile circa il 30% dei migranti che stazionavano in Serbia è entrato in Bosnia grazie alla crisi pandemica, che ha distolto uomini ed energie dal controllo dei confini. Nella Bosnia occidentale non ci sono più i campi di raccolta, ma i migranti bivaccano nei boschi e passano più facilmente in Croazia dove la polizia ha dovuto gestire l’emergenza virus e pure un terremoto.
Sul Carso anche l’esercito impegnato nell’operazione Strade sicure fa il possibile per tamponare l’arrivo dei migranti intercettai pure con i droni. A Fernetti sul valico con la Slovenia hanno montato un grosso tendone mimetico dove vengono portati i nuovi arrivati per i controlli sanitari. Il personale del 118 entra con le protezioni anti virus proprio per controllare che nessuno mostri i sintomi, come febbre e tosse, di un possibile contagio. Il Sap è preoccupato per l’emergenza sanitaria: “Non abbiamo strutture idonee ad accogliere un numero così elevato di persone. Servono più ambienti per poter isolare “casi sospetti” e non mettere a rischio contagio gli operatori di Polizia. Non siamo nemmeno adeguatamente muniti di mezzi per il trasporto dei migranti con le separazioni previste dall’emergenza virus”.
Gli agenti impegnati sul terreno non sono autorizzati a parlare, ma a denti stretti ammettono: “Se va avanti così, in vista della bella stagione, la rotta balcanica rischia di esplodere. Saremo travolti dai migranti”. E Trieste potrebbe trasformarsi nella Lampedusa del Nord Est.
|
|
|
|
radio

|
27 gennaio 2020 | Radio 1 Italia sotto inchiesta | intervento |
Italia
Esercito e siti ebraici
Fausto Biloslavo
I nostri soldati rispettano la giornata della Memoria dell’Olocausto non solo il 27 gennaio, ma tutto l’anno. L’esercito, con l’operazione Strade sicure, schiera 24 ore al giorno ben 700 uomini in difesa di 58 siti ebraici sul territorio nazionale. Tutti obiettivi sensibili per possibile attentati oppure oltraggi anti semiti.
“Per ora non è mai accaduto nulla anche grazie alla presenza dei militari, che serve da deterrenza e non solo. Il senso di sicurezza ha evitato episodi di odio e minacce ripetute come in Francia, che rischiano di provocare un esodo della comunità ebraica” spiega una fonte militare de il Giornale.
I soldati, che si sono fatti le ossa all’estero, sorvegliano, quasi sempre con presidi fissi, 32 sinagoghe o tempi ebraici, 9 scuole, 4 musei e altri 13 siti distribuiti in tutta Italia, ma soprattutto al nord e al centro. La città con il più alto numero di obiettivi sensibili, il 41%, è Milano. Non a caso il comandante del raggruppamento di Strade sicure, come in altre città, è ufficialmente invitato alle celebrazioni del 27 gennaio, giorno della Memoria.
Lo scorso anno, in occasione dell’anniversario della nascita dello Stato di Israele, il rappresentante della comunità ebraica di Livorno, Vittorio Mosseri, ha consegnato una targa al comandante dei paracadustisti. “Alla brigata Folgore con stima e gratitudine per il servizio di sicurezza prestato nell’ambito dell’operazione Strade sicure contribuendo con attenzione e professionalità al sereno svolgimento delle attività della nostro comunità” il testo inciso sulla targa.
In questi tempi di spauracchi anti semiti l’esercito difende i siti ebraici in Italia con un numero di uomini praticamente equivalente a quello dispiegato in Afghanistan nel fortino di Herat. Grazie ad un’esperienza acquisita all’estero nella protezione delle minoranze religiose, come l’antico monastero serbo ortodosso di Decani in Kosovo.
“In ogni città dove è presente la comunità ebraica esiste un responsabile della sicurezza, un professionista che collabora con le forze dell’ordine ed i militari per coordinare al meglio la vigilanza” spiega la fonte del Giornale. Una specie di “assessore” alla sicurezza, che organizza anche il sistema di sorveglianza elettronica con telecamere e sistemi anti intrusione di avanguardia su ogni sito. Non solo: se in zona appare un simbolo o una scritta anti semita, soprattuto in arabo, viene subito segnalata, fotografata, analizzata e tradotta. “I livelli di allerta talvolta si innalzano in base alla situazione internazionale” osserva la fonte militare. L’ultimo allarme ha riguardato i venti di guerra fra Iran e Stati Uniti in seguito all’eliminazione del generale Qassem Soleimani.
Roma è la seconda città per siti ebraici presidiati dai militari compresi asili, scuole e oratori. Le sinagoghe sono sorvegliate pure a Napoli, Verona, Trieste e quando necessario vengono disposte le barriere di cemento per evitare attacchi con mezzi minati o utilizzati come arieti. A Venezia i soldati garantiscono la sicurezza dello storico ghetto. A Livorno e in altre città sono controllati anche i cimiteri ebraici. Una residenza per anziani legata alla comunità è pure nella lista dei siti protetti a Milano. Ed i militari di Strade sicure nel capoluogo lombardo non perdono d’occhio il memoriale della Shoah, lo sterminio degli ebrei voluto da Hitler.
|
|
|
|
|