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13 giugno 2020 - Il Fatto - Italia - Il Giornale
Il tassello che manca ai pm: le pressioni del sindaco Gori
I l sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, gli industriali locali, i commercianti, tutti erano contrari alle zone rosse e all\'isolamento. A fine febbraio lo slogan è #Bergamononsiferma con la pandemia che ben presto si espande a macchia d\'olio. Il 5 marzo stanno arrivando i rinforzi su ordine del ministero dell\'Interno per la zona rossa ad Alzano Lombardo e Nembro. Lo stesso Gori in un\'intervista all\'Eco di Bergamo, ancora presente sulla sua pagina Facebook, dice testualmente: «La vita va avanti, non siamo in guerra () Seguiamo tutte le prescrizioni, ma non c\'è motivo per non uscire, andare al ristorante con la moglie o farsi una passeggiata in centro». E boccia le zone rosse: «Il paradosso è che la città rischia di pagare un prezzo molto più elevato del reale () questa situazione ci sta danneggiando più del necessario». Solo l\'8 marzo cambierà idea quando è troppo tardi.
La Lega adesso vuole vederci chiaro con un\'interrogazione in Consiglio comunale, chiedendo «se a inizio del mese di marzo 2020, il sindaco ha ricevuto richieste da singoli imprenditori e/o associazioni di categoria perché intercedesse presso il governo nazionale o i parlamentari del suo schieramento politico al fine di dissuadere l\'istituzione della zona rossa di Alzano e Nembro». Il deputato leghista di Bergamo, Daniele Belotti, è stupito che «la procura» dopo aver chiamato a deporre tutti, dai vertici della Lombardia al governo, «non abbia sentito il sindaco Gori sulle eventuali pressioni per non istituire la zona rossa di Alzano e Nembro». Belotti conferma al Giornale «che gli imprenditori chiamavano tutti per evitare le chiusure. Il primo cittadino, che gode di una rilevanza nazionale, ben più di certi parlamentari, aveva il peso politico per intervenire sul Pd e sul governo». Pure i grillini vengono pressati e i rappresentanti locali sentono Roma, compreso Vito Crimi, reggente dei Cinque stelle. La risposta iniziale non lascia dubbi: «La zona rossa si farà». A Bergamo, però, la lobby anti chiusura è potente e ha nel sindaco il primo alfiere, come ricostruisce il Giornale.
Per capire la situazione bisogna fare un passo indietro partendo dalla lista dei sostenitori bergamaschi di Gori per la campagna elettorale, che l\'ha portato sulla poltrona di primo cittadino. Non pochi gli imprenditori o persone vicine come Grazia Flaviani, moglie del patron della Brembo, Alberto Bombassei, che dona 50mila euro. Tagli di 10mila euro per la Persico, proprio di Nembro, la Azotal di Bergamo e altre società. In tutto si arriva ad un ragguardevole finanziamento di 250mila euro.
Non è un caso che il sindaco, dopo i primi provvedimenti della regione Lombardia, sposi la linea della sottovalutazione postando su Facebook l\'uscita a cena con la moglie Cristina Parodi. E soprattutto aderendo alle campagne della Confindustria locale e della Confcommercio che sottovalutano il virus. Lo slogan adottato dal sindaco, con tanto di video rassicurante e colonna sonora dei Pinguini Tattici nucleari, è «Bergamo non si ferma». Il 28 febbraio Gori scrive su Facebook, che «600 NEGOZI lanciano il weekend di shopping in città: saranno TUTTI APERTI SABATO E DOMENICA () il problema Coronavirus non è superato, ma #Bergamononsiferma».
Il 5 marzo sostiene che pur seguendo le prescrizioni «non c\'è motivo per non uscire di casa». E sottolinea che sono aperti pure i musei. Di fatto boccia pubblicamente la zona rossa sapendo bene che stanno arrivando i rinforzi: «Questa situazione ci sta danneggiando più del necessario».
Tra le piste al vaglio della procura di Bergamo, che indaga sull\'ipotesi di reato di «epidemia colposa», è sempre più consistente quella degli industriali che fanno pressione sui politici per evitare le zone rosse.
L\'interrogazione della Lega in Consiglio comunale ricorda come il sindaco «promuoveva la campagna Bergamo non si ferma al fine di spingere la gente a recarsi in città e a frequentare bar e ristoranti». E nonostante gli allarmi già lanciati dagli esperti a livello nazionale e regionale «riprendeva il messaggio di Confindustria Bergamo», che sminuiva i pericoli. I leghisti Enrico Facoetti e Stefano Massimiliano Rovetta scrivono nell\'interrogazione che «da più parti si fanno ipotesi su possibili interventi che il mondo imprenditoriale orobico () avrebbe esercitato ad inizio marzo sugli organi politici per evitare l\'istituzione della zona rossa». E ricordando i fondi degli imprenditori per la campagna elettorale di Gori chiedendo se ha fatto pressioni sul «governo nazionale o i parlamentari del suo schieramento politico al fine di dissuadere l\'istituzione della zona rossa di Alzano e Nembro».
Solo l\'8 marzo, quando il governo fa ritirare i rinforzi abbandonando l\'idea della chiusura mirata e totale trasformando la Lombardia in una più vaga «zona arancione», Gori fa mea culpa e cambia rotta. «La situazione è molto SERIA. La diffusione del Coronavirus ha avuto un\'accelerazione negli ultimi giorni - scrive su Facebook -. Adesso dobbiamo stare a casa il più possibile. Uscire il meno possibile, incontrare meno persone possibile».

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21 settembre 2012 | La Vita in Diretta | reportage
Islam in Italia e non solo. Preconcetti, paure e pericoli


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30 aprile 2020 | Tg5 | reportage
L'anticamera dell'inferno
Fausto Biloslavo TRIESTE - “Per noi in prima linea c’è il timore che il ritorno alla vita normale auspicata da tutti possa portare a un aumento di contagi e dei ricoveri di persone in condizioni critiche” ammette Gianfranco, veterano degli infermieri bardato come un marziano per proteggersi dal virus. Dopo anni in pronto soccorso e terapia intensiva lavorava come ricercatore universitario, ma si è offerto volontario per combattere la pandemia. Lunedì si riapre, ma non dimentichiamo che registriamo ancora oltre 250 morti al giorno e quasi duemila nuovi positivi. I guariti aumentano e il contagio diminuisce, però 17.569 pazienti erano ricoverati con sintomi fino al primo maggio e 1578 in rianimazione. Per entrare nel reparto di pneumologia semi intensiva respiratoria dell’ospedale di Cattinara a Trieste bisogna seguire una minuziosa procedura di vestizione. Mascherina di massima protezione, tuta bianca, copri scarpe, doppi guanti e visiera per evitare il contagio. Andrea Valenti, responsabile infermieristico, è la guida nel reparto dove si continua a combattere, giorno e notte, per strappare i contagiati alla morte. Un grande open space con i pazienti più gravi collegati a scafandri o maschere che li aiutano a respirare e un nugolo di tute bianche che si spostano da un letto all’altro per monitorare o somministrare le terapie e dare conforto. Un contagiato con i capelli grigi tagliati a spazzola sembra quasi addormentato sotto il casco da marziano che pompa ossigeno. Davanti alla finestra sigillata un altro paziente che non riesce a parlare gesticola per indicare agli infermieri dove sente una fitta di dolore. Un signore cosciente, ma sfinito, con i tubi dell’ossigeno nel naso è collegato, come gli altri, a un monitor che segnala di continuo i parametri vitali. “Mi ha colpito un paziente che descriveva la sensazione terribile, più brutta del dolore, di non riuscire a respirare. Diceva che “è come se mi venisse incontro la morte”” racconta Marco Confalonieri direttore della struttura complessa di pneumologia e terapia intensiva respiratoria al dodicesimo piano della torre medica di Cattinara. La ventilazione non invasiva lascia cosciente il paziente che a Confalonieri ha raccontato come “bisogna diventare amico con la macchina, mettersi d’accordo con il ventilatore per uscire dal tunnel” e tornare alla vita. Una “resuscitata” è Vasilica, 67 anni, operatrice di origine romena di una casa di risposo di Trieste dove ha contratto il virus. “Ho passato un inferno collegata a questi tubi, sotto il casco, ma la voglia di vivere e di rivedere i miei nipoti, compreso l’ultimo che sta per nascere, ti fa sopportare tutto” spiega la donna occhialuta con una coperta sulle spalle, mascherina e tubo per l’ossigeno. La sopravvissuta ancora ansima quando parla del personale: “Sono angeli. Senza questi infermieri, medici, operatori sanitari sarei morta. Lottano ogni momento al nostro fianco”. Il rumore di fondo del reparto è il ronzio continuo delle macchine per l’ossigeno. L’ambiente è a pressione negativa per aspirare il virus e diminuire il pericolo, ma la ventilazione ai pazienti aumenta la dispersione di particelle infette. In 6 fra infermieri ed un medico sono stati contagiati. “Mi ha colpito la telefonata di Alessandra che piangendo ripeteva “non è colpa mia, non è colpa mia” - racconta Confalonieri con il volto coperto da occhialoni e maschera di protezione - Non aveva nessuna colpa, neppure sapeva come si è contagiata, ma si struggeva per dover lasciare soli i colleghi a fronteggiare il virus”. Nicol Vusio, operatrice sanitaria triestina di 29 anni, ha spiegato a suo figlio che “la mamma è in “guerra” per combattere un nemico invisibile e bisogna vincere”. Da dietro la visiera ammette: “Me l’aspettavo fin dalla prime notizie dalla Cina. Secondo me avremmo dovuto reagire molto prima”. Nicol racconta come bagna le labbra dei pazienti “che con gli occhi ti ringraziano”. I contagiati più gravi non riescono a parlare, ma gli operatori trovano il modo di comunicare. “Uno sguardo, la rotazione del capo, il movimento di una mano ti fa capire se il paziente vuole essere sollevato oppure girato su un fianco o se respira male” spiega Gianfranco, infermiere da 30 anni. Il direttore sottolinea che “il covid “cuoce” tutti gli organi, non solo il polmone e li fa collassare”, ma il reparto applica un protocollo basato sul cortisone che ha salvato una novantina di contagiati. Annamaria è una delle sopravvissute, ancora debole. Finalmente mangia da sola un piattino di pasta in bianco e con un mezzo sorriso annuncia la vittoria: “Il 7 maggio compio 79 anni”.

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24 novembre 2015 | Rai 1 Storie vere | reportage
Terrorismo in Europa
Dopo gli attacchi di Parigi cosa dobbiamo fare per estirpare la minaccia in Siria, Iraq e a casa nostra

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27 gennaio 2020 | Radio 1 Italia sotto inchiesta | intervento
Italia
Esercito e siti ebraici
Fausto Biloslavo I nostri soldati rispettano la giornata della Memoria dell’Olocausto non solo il 27 gennaio, ma tutto l’anno. L’esercito, con l’operazione Strade sicure, schiera 24 ore al giorno ben 700 uomini in difesa di 58 siti ebraici sul territorio nazionale. Tutti obiettivi sensibili per possibile attentati oppure oltraggi anti semiti. “Per ora non è mai accaduto nulla anche grazie alla presenza dei militari, che serve da deterrenza e non solo. Il senso di sicurezza ha evitato episodi di odio e minacce ripetute come in Francia, che rischiano di provocare un esodo della comunità ebraica” spiega una fonte militare de il Giornale. I soldati, che si sono fatti le ossa all’estero, sorvegliano, quasi sempre con presidi fissi, 32 sinagoghe o tempi ebraici, 9 scuole, 4 musei e altri 13 siti distribuiti in tutta Italia, ma soprattutto al nord e al centro. La città con il più alto numero di obiettivi sensibili, il 41%, è Milano. Non a caso il comandante del raggruppamento di Strade sicure, come in altre città, è ufficialmente invitato alle celebrazioni del 27 gennaio, giorno della Memoria. Lo scorso anno, in occasione dell’anniversario della nascita dello Stato di Israele, il rappresentante della comunità ebraica di Livorno, Vittorio Mosseri, ha consegnato una targa al comandante dei paracadustisti. “Alla brigata Folgore con stima e gratitudine per il servizio di sicurezza prestato nell’ambito dell’operazione Strade sicure contribuendo con attenzione e professionalità al sereno svolgimento delle attività della nostro comunità” il testo inciso sulla targa. In questi tempi di spauracchi anti semiti l’esercito difende i siti ebraici in Italia con un numero di uomini praticamente equivalente a quello dispiegato in Afghanistan nel fortino di Herat. Grazie ad un’esperienza acquisita all’estero nella protezione delle minoranze religiose, come l’antico monastero serbo ortodosso di Decani in Kosovo. “In ogni città dove è presente la comunità ebraica esiste un responsabile della sicurezza, un professionista che collabora con le forze dell’ordine ed i militari per coordinare al meglio la vigilanza” spiega la fonte del Giornale. Una specie di “assessore” alla sicurezza, che organizza anche il sistema di sorveglianza elettronica con telecamere e sistemi anti intrusione di avanguardia su ogni sito. Non solo: se in zona appare un simbolo o una scritta anti semita, soprattuto in arabo, viene subito segnalata, fotografata, analizzata e tradotta. “I livelli di allerta talvolta si innalzano in base alla situazione internazionale” osserva la fonte militare. L’ultimo allarme ha riguardato i venti di guerra fra Iran e Stati Uniti in seguito all’eliminazione del generale Qassem Soleimani. Roma è la seconda città per siti ebraici presidiati dai militari compresi asili, scuole e oratori. Le sinagoghe sono sorvegliate pure a Napoli, Verona, Trieste e quando necessario vengono disposte le barriere di cemento per evitare attacchi con mezzi minati o utilizzati come arieti. A Venezia i soldati garantiscono la sicurezza dello storico ghetto. A Livorno e in altre città sono controllati anche i cimiteri ebraici. Una residenza per anziani legata alla comunità è pure nella lista dei siti protetti a Milano. Ed i militari di Strade sicure nel capoluogo lombardo non perdono d’occhio il memoriale della Shoah, lo sterminio degli ebrei voluto da Hitler.

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