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17 giugno 2020 - Esteri - Italia - Panorama
Missioni all’estero sempre più a caro prezzo
Fausto Biloslavo
“Dall’Afghanistan avremmo dovuto venire via da tempo. La nostra presenza è oramai una finzione. Anche dall’Iraq sarebbe meglio disimpegnarsi. E per interventi come quello in Kosovo, che ho comandato, bisogna dire basta. Vent’anni per un’operazione di questo genere non è più una missione, ma un’agonia” spiega a Panorama, senza tanti peli sulla lingua, Fabio Mini, generale in congedo. Il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, la pensa diversamente. L’Italia parteciperà a nuove missioni militari in Africa, nonostante la crisi post Covid e conferma le vecchie arrivando a 45 operazioni internazionali comprese quelle di polizia. Le Commissioni Difesa hanno cominciato l’iter sulle delibere presentate dal governo per il finanziamento delle operazioni all’estero, che dovranno essere approvate dal Parlamento. Un esborso totale per quest’anno di quasi 1 miliardo e 200 milioni di euro, oltre 3 milioni al giorno, compresi una manciata di stanziamenti per la Cooperazione allo sviluppo. Le nuove missioni costeranno nel 2020 e 2021 “solo” 47.147.373 € e impiegheranno 1125 uomini. Al momento utilizziamo all’estero un numero massimo di 7343 militari, secondo il sito del ministero della Difesa. Fra le 650 pagine delle due delibere governative si scoprono anche dettagli interessanti come i 120 milioni di euro per le forze di sicurezza afghane, il quasi mezzo milione di voli business per “assegnazioni brevi” di personale di protezione presso sedi diplomatiche a rischio e 15 milioni per l’Aise, i servizi segreti.
“Dopo l’emergenza Covid sarebbe il momento giusto per chiederci se le missioni hanno raggiunto gli obiettivi prefissati - spiega Mini - E capire bene dove concentrare le forze in nome dei nostri interessi nazionali. Poi i militari dovrebbero spiegarlo ai politici. Una delle nuove missioni è in Mali con i francesi. Cosa ci andiamo a fare?”.
Il 21 maggio il Consiglio dei ministri ha deliberato “la partecipazione dell’Italia ad ulteriori missioni internazionali”. In tutto sono cinque, ma il grosso è costituito da due interventi in Africa e dalla missione “impossibile” Irini, che dovrebbe fare rispettare l’embargo delle armi per la Libia. A cavallo fra Mali, Niger e Burkina Faso vogliamo partecipare con 200 uomini, soprattutto dei corpi speciali, alla task force Takuba, una forza multinazionale a guida francese per addestrare e assistere le forze locali “nella lotta contro i gruppi jihadisti” nel Sahel. Il contributo italiano prevede l’impiego di elicotteri per l’evacuazione medica e “assetti aeroteresti a supporto delle operazioni”. Roberto Paolo Ferrari leghista della Commissione Difesa alla Camera vuole vederci chiaro: “Se nel Sahel pensiamo a missioni vecchie e nuove per tamponare il flusso dei migranti e combattere il terrorismo va bene. Lo scopo deve essere sempre la difesa degli interessi nazionali e non fare da reggicoda ai francesi”.
Un’altra novità è l’operazione anti pirateria nel Golfo di Guinea, dove gli abbordaggi rappresentano il 90% dei sequestri in mare di tutto il mondo. Il dispositivo italiano composto da 2 navi e 2 aerei per un totale di 400 uomini proteggerà di fronte alla Nigeria \\\"gli asset estrattivi di Eni operando in acque internazionali” e supporterà \\\"il naviglio mercantile nazionale in transito nell’area”.
La nuova missione più discutibile riguarda la mini flotta europea davanti alla Libia comandata dall’ammiraglio Fabio Agostini. Eunavformed operazioni Irini dovrebbe fermare la valanga di armi che arriva in Libia a tutte le forze in campo. Al momento conta su una sola nave greca e tre aeroplanini. Il contributo italiano previsto è di una nave, probabilmente l’unità anfibia San Giorgio e tre velivoli per un totale di 517 uomini con un costo di 21.309.683 €. “Irini serve a far vedere che l’Europa esiste con una missione inutile in mezzo al mare quando turchi e russi si spartiscono la Libia. E l’Italia, grazie al comando, finge di non essere stata scalzata e messa ai margini” osserva Gianandrea Gaiani, direttore di Analisi Difesa. Il generale in congedo Giorgio Battisti veterano di missioni ostiche fa notare che “è tutta da dimostrare la capacità di Irini. I turchi hanno fatto sbarcare in Libia carri armati M 60 sotto il naso dell’operazione aeronavale europea”. Una nave mercantile salpata da Istanbul il 21 maggio con i tank e scortata da una fregata di Ankara è attraccata a Misurata. Il mini convoglio sarebbe stato segnalato da un’unità italiana, ma che fa parte di un altro dispositivo navale nel Mediterraneo. Ancora più grave, il 10 giugno, la fregata greca Spetsai della missione Irini ha provato a intercettare un mercantile partito dalla Turchia e diretto in Libia sospettato di trasportare armi. Una nave da guerra turca ha intimato alla fregata greca di stare alla larga e in zona è arrivata un’altra unità di rinforzo dimostrando l’inconsistenza della missione europea.
La fitta tabella dei costi per la “proroga delle missioni internazionali” nel 2020 presenta un conto di 1.136.129. 481 €. Il contributo richiesto “a sostegno delle forze di sicurezza afghane” è di 120 milioni di euro, ma si temono chiaramente maneggi e truffe usuali in Afghanistan. Nella scheda si legge che “l’erogazione del finanziamento (…) si accompagnerà ad un’azione di monitoraggio sulla corretta gestione dei fondi” da parte di una costola dell’Onu (Undp), che con i nostri soldi permette “l’erogazione dei salari del personale del Ministero dell’Interno” di Kabul.
“Si può risparmiare, ma bisogna tenere conto che i fondi per le missioni servono ad addestrare le nostre truppe - spiega Gaiani - Il paradosso è che le Forze armate hanno bisogno delle operazioni all’estero per ottenere i soldi che permettono ai reparti di essere operativi e pronti”.
La missione più costosa con 219.146.003 € è quella in Iraq contro la minaccia dello Stato islamico, che prevedeva 1100 uomini e 12 mezzi aerei compresi caccia di base in Kuwait, elicotteri e droni. In realtà la missione è “congelata” a causa del virus e delle tensioni fra gli americani e l’Iran, che coinvolgono il governo iracheno. Il nostro compito era soprattutto di addestramento dei curdi sul fronte nord. La pandemia ha sospeso le attività e 200 uomini sono stati rimpatriati.
In Afghanistan, dove gli americani continuano a ritirarsi, abbiamo ancora 800 uomini in gran parte asserragliati nel “fortino” di Herat. La missione continua a costare 129.711.820 €.
In Libano con 1076 caschi blu spendiamo 120.308.185 €. In piena emergenza Covid, il capogruppo dei Cinque stelle alla Commissione Esteri del Senato, Gianluca Ferrara, proponeva la smobilitazione. Anche se i grillini hanno idee diverse sulle operazioni internazionali (leggi intervista al deputato Luigi Iovino). “Un rientro temporaneo, salvo per quelle missioni già in fase di ridimensionamento o conclusione - sosteneva il senatore Ferrara - Come quella in Afghanistan, dove si tratterebbe solo di accelerare un ritiro già previsto. In Iraq, dove l’Italia schiera un contingente analogo, già si valutava il ritiro delle nostre truppe per motivi di sicurezza. In Libano, dove abbiamo altri mille uomini, potremmo ridurre temporaneamente la nostra presenza. Per le tante missioni minori, potremmo semplicemente interrompere la nostra partecipazione”. Un veterano della Folgore, il generale in ausiliaria, Marco Bertolini, replica a muso duro: “Le manie di ritirarci fa parte dell’antimilitarismo ignorante dei grillini. Un paese come l’Italia non può dire fermate il mondo che vogliamo scendere”.
La Libia è il vero buco nero, dove i nostri interessi nazionali sono cruciali, ma siamo diventati ininfluenti. Se calcoliamo la nave a Tripoli, l’ospedale militare a Misurata con 300 uomini e il dispositivo di mare Sicuro nel Mediterraneo a “supporto alla Guardia costiera libica” per fermare i migranti l’intera operazione ci costa 101.171.668 €. Peccato che “in Libia siamo stati tagliati fuori dai turchi, che hanno dimostrato come si ribalta la situazione con l’uso delle armi” osserva Bertolini. “Le missioni utili o inutili vanno definite secondo una prospettiva chiara - spiega Gaiani - Se vogliamo concentrarsi sul Mediterraneo allargato ritiriamoci dall’Afghanistan o viceversa. Ma ci vuole una visione geostrategica globale, che manca alla politica”.

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14 marzo 2015 | Tgr Friuli-Venezia Giulia | reportage
Buongiorno regione
THE WAR AS I SAW IT - L'evento organizzato dal Club Atlantico giovanile del Friuli-Venezia Giulia e da Sconfinare si svolgerà nell’arco dell’intera giornata del 10 marzo 2015 e si articolerà in due fasi distinte: MATTINA (3 ore circa) ore 9.30 Conferenza sul tema del giornalismo di guerra Il panel affronterà il tema del giornalismo di guerra, raccontato e analizzato da chi l’ha vissuto in prima persona. Per questo motivo sono stati invitati come relatori professionisti del settore con ampia esperienza in conflitti e situazioni di crisi, come Gianandrea Gaiani (Direttore responsabile di Analisi Difesa, collaboratore di diverse testate nazionali), Fausto Biloslavo (inviato per Il Giornale in numerosi conflitti, in particolare in Medio Oriente), Elisabetta Burba (firma di Panorama), Gabriella Simoni (inviata Mediaset in numerosi teatri di conflitto, specialmente in Medio Oriente), Giampaolo Cadalanu (giornalista affermato, si occupa di politica estera per La Repubblica). Le relazioni saranno moderate dal professor Georg Meyr, coordinatore del corso di laurea in Scienze Internazionali e Diplomatiche dell’Università di Trieste. POMERIGGIO (3 ore circa) ore 14.30 Due workshop sul tema del giornalismo di guerra: 1. “Il reporter sul campo vs l’analista da casa: strumenti utili e accorgimenti pratici” - G. Gaiani, G. Cadalanu, E. Burba, F. Biloslavo 2. “Il freelance, l'inviato e l'addetto stampa in aree di crisi: tre figure a confronto” G. Simoni, G. Cuscunà, cap. B. Liotti

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30 aprile 2020 | Tg5 | reportage
L'anticamera dell'inferno
Fausto Biloslavo TRIESTE - “Per noi in prima linea c’è il timore che il ritorno alla vita normale auspicata da tutti possa portare a un aumento di contagi e dei ricoveri di persone in condizioni critiche” ammette Gianfranco, veterano degli infermieri bardato come un marziano per proteggersi dal virus. Dopo anni in pronto soccorso e terapia intensiva lavorava come ricercatore universitario, ma si è offerto volontario per combattere la pandemia. Lunedì si riapre, ma non dimentichiamo che registriamo ancora oltre 250 morti al giorno e quasi duemila nuovi positivi. I guariti aumentano e il contagio diminuisce, però 17.569 pazienti erano ricoverati con sintomi fino al primo maggio e 1578 in rianimazione. Per entrare nel reparto di pneumologia semi intensiva respiratoria dell’ospedale di Cattinara a Trieste bisogna seguire una minuziosa procedura di vestizione. Mascherina di massima protezione, tuta bianca, copri scarpe, doppi guanti e visiera per evitare il contagio. Andrea Valenti, responsabile infermieristico, è la guida nel reparto dove si continua a combattere, giorno e notte, per strappare i contagiati alla morte. Un grande open space con i pazienti più gravi collegati a scafandri o maschere che li aiutano a respirare e un nugolo di tute bianche che si spostano da un letto all’altro per monitorare o somministrare le terapie e dare conforto. Un contagiato con i capelli grigi tagliati a spazzola sembra quasi addormentato sotto il casco da marziano che pompa ossigeno. Davanti alla finestra sigillata un altro paziente che non riesce a parlare gesticola per indicare agli infermieri dove sente una fitta di dolore. Un signore cosciente, ma sfinito, con i tubi dell’ossigeno nel naso è collegato, come gli altri, a un monitor che segnala di continuo i parametri vitali. “Mi ha colpito un paziente che descriveva la sensazione terribile, più brutta del dolore, di non riuscire a respirare. Diceva che “è come se mi venisse incontro la morte”” racconta Marco Confalonieri direttore della struttura complessa di pneumologia e terapia intensiva respiratoria al dodicesimo piano della torre medica di Cattinara. La ventilazione non invasiva lascia cosciente il paziente che a Confalonieri ha raccontato come “bisogna diventare amico con la macchina, mettersi d’accordo con il ventilatore per uscire dal tunnel” e tornare alla vita. Una “resuscitata” è Vasilica, 67 anni, operatrice di origine romena di una casa di risposo di Trieste dove ha contratto il virus. “Ho passato un inferno collegata a questi tubi, sotto il casco, ma la voglia di vivere e di rivedere i miei nipoti, compreso l’ultimo che sta per nascere, ti fa sopportare tutto” spiega la donna occhialuta con una coperta sulle spalle, mascherina e tubo per l’ossigeno. La sopravvissuta ancora ansima quando parla del personale: “Sono angeli. Senza questi infermieri, medici, operatori sanitari sarei morta. Lottano ogni momento al nostro fianco”. Il rumore di fondo del reparto è il ronzio continuo delle macchine per l’ossigeno. L’ambiente è a pressione negativa per aspirare il virus e diminuire il pericolo, ma la ventilazione ai pazienti aumenta la dispersione di particelle infette. In 6 fra infermieri ed un medico sono stati contagiati. “Mi ha colpito la telefonata di Alessandra che piangendo ripeteva “non è colpa mia, non è colpa mia” - racconta Confalonieri con il volto coperto da occhialoni e maschera di protezione - Non aveva nessuna colpa, neppure sapeva come si è contagiata, ma si struggeva per dover lasciare soli i colleghi a fronteggiare il virus”. Nicol Vusio, operatrice sanitaria triestina di 29 anni, ha spiegato a suo figlio che “la mamma è in “guerra” per combattere un nemico invisibile e bisogna vincere”. Da dietro la visiera ammette: “Me l’aspettavo fin dalla prime notizie dalla Cina. Secondo me avremmo dovuto reagire molto prima”. Nicol racconta come bagna le labbra dei pazienti “che con gli occhi ti ringraziano”. I contagiati più gravi non riescono a parlare, ma gli operatori trovano il modo di comunicare. “Uno sguardo, la rotazione del capo, il movimento di una mano ti fa capire se il paziente vuole essere sollevato oppure girato su un fianco o se respira male” spiega Gianfranco, infermiere da 30 anni. Il direttore sottolinea che “il covid “cuoce” tutti gli organi, non solo il polmone e li fa collassare”, ma il reparto applica un protocollo basato sul cortisone che ha salvato una novantina di contagiati. Annamaria è una delle sopravvissute, ancora debole. Finalmente mangia da sola un piattino di pasta in bianco e con un mezzo sorriso annuncia la vittoria: “Il 7 maggio compio 79 anni”.

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06 giugno 2017 | Sky TG 24 | reportage
Terrorismo da Bologna a Londra
Fausto Biloslavo "Vado a fare il terrorista” è l’incredibile affermazione di Youssef Zaghba, il terzo killer jihadista del ponte di Londra, quando era stato fermato il 15 marzo dello scorso anno all’aeroporto Marconi di Bologna. Il ragazzo nato nel 1995 a Fez, in Marocco, ma con il passaporto italiano grazie alla madre Khadija (Valeria) Collina, aveva in tasca un biglietto di sola andata per Istanbul e uno zainetto come bagaglio. Il futuro terrorista voleva raggiungere la Siria per arruolarsi nello Stato islamico. Gli agenti di polizia in servizio allo scalo Marconi lo hanno fermato proprio perché destava sospetti. Nonostante sul cellulare avesse materiale islamico di stampo integralista è stato lasciato andare ed il tribunale del riesame gli ha restituito il telefonino ed il computer sequestrato in casa, prima di un esame approfondito dei contenuti. Le autorità inglesi hanno rivelato ieri il nome del terzo uomo sostenendo che non “era di interesse” né da parte di Scotland Yard, né per l’MI5, il servizio segreto interno. Il procuratore di Bologna, Giuseppe Amato, ha dichiarato a Radio 24, che "venne segnalato a Londra come possibile sospetto”. E sarebbero state informate anche le autorità marocchine, ma una fonte del Giornale, che ha accesso alle banche dati rivela “che non era inserito nella lista dei sospetti foreign fighter, unica per tutta Europa”. Non solo: Il Giornale è a conoscenza che Zaghba, ancora minorenne, era stato fermato nel 2013 da solo, a Bologna per un controllo delle forze dell’ordine senza esiti particolari. Il procuratore capo ha confermato che l’italo marocchino "in un anno e mezzo, è venuto 10 giorni in Italia ed è stato sempre seguito dalla Digos di Bologna. Abbiamo fatto tutto quello che si poteva fare, ma non c'erano gli elementi di prova che lui fosse un terrorista. Era un soggetto sospettato per alcune modalità di comportamento". Presentarsi come aspirante terrorista all’imbarco a Bologna per Istanbul non è poco, soprattutto se, come aveva rivelato la madre alla Digos “mi aveva detto che voleva andare a Roma”. Il 15 marzo dello scorso anno il procuratore aggiunto di Bologna, Valter Giovannini, che allora dirigeva il pool anti terrorismo si è occupato del caso disponendo un fermo per identificazione al fine di accertare l’identità del giovane. La Digos ha contattato la madre, che è venuta a prenderlo allo scalo ammettendo: "Non lo riconosco più, mi spaventa. Traffica tutto il giorno davanti al computer per vedere cose strane” ovvero filmati jihadisti. La procura ha ordinato la perquisizione in casa e sequestrato oltre al cellulare, alcune sim ed il pc. La madre si era convertita all’Islam quando ha sposato Mohammed il padre marocchino del terrorista che risiede a Casablanca. Prima del divorzio hanno vissuto a lungo in Marocco. Poi la donna è tornata casa nella frazione di Fagnano di Castello di Serravalle, in provincia di Bologna. Il figlio jihadista aveva trovato lavoro a Londra, ma nella capitale inglese era entrato in contatto con la cellula di radicali islamici, che faceva riferimento all’imam, oggi in carcere, Anjem Choudary. Il timore è che il giovane italo-marocchino possa essere stato convinto a partire per la Siria da Sajeel Shahid, luogotenente di Choudary, nella lista nera dell’ Fbi e sospettato di aver addestrato in Pakistan i terroristi dell’attacco alla metro di Londra del 2005. "Prima di conoscere quelle persone non si era mai comportato in maniera così strana” aveva detto la madre alla Digos. Il paradosso è che nessuna legge permetteva di trattenere a Bologna il sospetto foreign fighter ed il tribunale del riesame ha accolto l’istanza del suo avvocato di restituirgli il materiale elettronico sequestrato. “Nove su dieci, in questi casi, la richiesta non viene respinte” spiega una fonte del Giornale, che conosce bene la vicenda. Non esiste copia del materiale trovato, che secondo alcune fonti erano veri e propri proclami delle bandiere nere. E non è stato possibile fare un esame più approfondito per individuare i contatti del giovane. Il risultato è che l’italo-marocchino ha potuto partecipare alla mattanza del ponte di Londra. Parenti e vicini cadono dalle nuvole. La zia acquisita della madre, Franca Lambertini, non ha dubbi: “Era un bravo ragazzo, l'ultima volta che l'ho visto mi ha detto “ciao zia”. Non avrei mai pensato a una cosa del genere".

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27 gennaio 2020 | Radio 1 Italia sotto inchiesta | intervento
Italia
Esercito e siti ebraici
Fausto Biloslavo I nostri soldati rispettano la giornata della Memoria dell’Olocausto non solo il 27 gennaio, ma tutto l’anno. L’esercito, con l’operazione Strade sicure, schiera 24 ore al giorno ben 700 uomini in difesa di 58 siti ebraici sul territorio nazionale. Tutti obiettivi sensibili per possibile attentati oppure oltraggi anti semiti. “Per ora non è mai accaduto nulla anche grazie alla presenza dei militari, che serve da deterrenza e non solo. Il senso di sicurezza ha evitato episodi di odio e minacce ripetute come in Francia, che rischiano di provocare un esodo della comunità ebraica” spiega una fonte militare de il Giornale. I soldati, che si sono fatti le ossa all’estero, sorvegliano, quasi sempre con presidi fissi, 32 sinagoghe o tempi ebraici, 9 scuole, 4 musei e altri 13 siti distribuiti in tutta Italia, ma soprattutto al nord e al centro. La città con il più alto numero di obiettivi sensibili, il 41%, è Milano. Non a caso il comandante del raggruppamento di Strade sicure, come in altre città, è ufficialmente invitato alle celebrazioni del 27 gennaio, giorno della Memoria. Lo scorso anno, in occasione dell’anniversario della nascita dello Stato di Israele, il rappresentante della comunità ebraica di Livorno, Vittorio Mosseri, ha consegnato una targa al comandante dei paracadustisti. “Alla brigata Folgore con stima e gratitudine per il servizio di sicurezza prestato nell’ambito dell’operazione Strade sicure contribuendo con attenzione e professionalità al sereno svolgimento delle attività della nostro comunità” il testo inciso sulla targa. In questi tempi di spauracchi anti semiti l’esercito difende i siti ebraici in Italia con un numero di uomini praticamente equivalente a quello dispiegato in Afghanistan nel fortino di Herat. Grazie ad un’esperienza acquisita all’estero nella protezione delle minoranze religiose, come l’antico monastero serbo ortodosso di Decani in Kosovo. “In ogni città dove è presente la comunità ebraica esiste un responsabile della sicurezza, un professionista che collabora con le forze dell’ordine ed i militari per coordinare al meglio la vigilanza” spiega la fonte del Giornale. Una specie di “assessore” alla sicurezza, che organizza anche il sistema di sorveglianza elettronica con telecamere e sistemi anti intrusione di avanguardia su ogni sito. Non solo: se in zona appare un simbolo o una scritta anti semita, soprattuto in arabo, viene subito segnalata, fotografata, analizzata e tradotta. “I livelli di allerta talvolta si innalzano in base alla situazione internazionale” osserva la fonte militare. L’ultimo allarme ha riguardato i venti di guerra fra Iran e Stati Uniti in seguito all’eliminazione del generale Qassem Soleimani. Roma è la seconda città per siti ebraici presidiati dai militari compresi asili, scuole e oratori. Le sinagoghe sono sorvegliate pure a Napoli, Verona, Trieste e quando necessario vengono disposte le barriere di cemento per evitare attacchi con mezzi minati o utilizzati come arieti. A Venezia i soldati garantiscono la sicurezza dello storico ghetto. A Livorno e in altre città sono controllati anche i cimiteri ebraici. Una residenza per anziani legata alla comunità è pure nella lista dei siti protetti a Milano. Ed i militari di Strade sicure nel capoluogo lombardo non perdono d’occhio il memoriale della Shoah, lo sterminio degli ebrei voluto da Hitler.

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