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12 luglio 2020 - Controstorie - Italia - Il Giornale
LA foiba di Basovizza e quella visita storica che sa di fregatura
Fausto Biloslavo
La prima volta di un presidente sloveno sulla foiba di Basovizza, che domani renderà omaggio con il capo dello Stato italiano al luogo simbolo delle vittime italiane di Tito. Il 13 luglio era partita come una giornata storica, ma rischia di trasformarsi in «bidone» storico e non certo riconciliazione grazie alle imposizioni di Lubiana e all\'arrendevolezza italiana. Non solo la richiesta slovena di commemorare quattro fucilati durante il fascismo, ma anche medaglie non previste allo scrittore ultracentenario Boris Pahor, che si ricorda di azioni squadristiche quando aveva 6 anni.
Tutto è partito dalla riconsegna alla minoranza slovena dell\'ex hotel Balkan, il 13 luglio, esattamente 100 anni dopo l\'incendio che distrusse l\'allora Narodni Dom, la casa del popolo degli slavi di Trieste all\'interno dell\'albergo. Per la storiografia ufficiale fu un vile attacco fascista, ma dati, fotografie e testimonianze dimostrerebbero il contrario. E la riconsegna avviene non solo con Mattarella, ma una passerella di ministri, Di Maio, Lamorgese e Manfredi oltre a Patuanelli solo perché originario di Trieste. Una «riconciliazione» senza popolo, per evitare contestazioni e giornalisti.
Gli esuli sulla foiba saranno ridotti a un sparuto gruppetto di una quindicina di persone grazie alla scusa delle norme anti virus, nonostante ci siano spazi chilometrici per il distanziamento. E con la stessa scusa, per evitare domande scomode, l\'accesso alla stampa è vietato, a parte Rai Quirinale e forse il quotidiano locale, allineato e coperto, con diffusione in streaming in puro stile sovietico.
Domani il presidente sloveno Borut Pahor e il capo dello Stato, Sergio Mattarella si incontreranno alla foiba di Basovizza, monumento nazionale. La prima volta di un presidente sloveno sul luogo simbolo delle violenze dei partigiani di Tito contro gli italiani, dopo la fine della seconda guerra mondiale. Non potevano mancare le reazioni dei negazionisti come Claudia Cernigoi e l\'ex senatore del Pci, Stojan Spetic, di fatto appoggiati da uno stuolo di intellettuali e politici locali. Spetic è convinto che si tratti «di un\'improvvisazione politica e una gratuita concessione al revisionismo storico delle destre».
Dopo la foiba, Pahor, con un «ricatto», ha preteso in cambio di trascinare Mattarella davanti al cippo, sempre a Basovizza, dedicato a quattro membri dell\'Organizzazione Rivoluzionaria della Venezia Giulia (Tigr), ultranazionalista slava, fucilati nel 1930 con una sentenza del tribunale speciale per la difesa dello Stato. «Secondo le attuali leggi italiane queste vittime sono considerate come terroristi - ha dichiarato Pahor alla tv slovena - Il gesto deve essere inteso come un atto silenzioso di riabilitazione politica dei membri del Tigr e di quei combattenti antifascisti attivi anche prima dell\'inizio della seconda guerra mondiale». L\'organizzazione clandestina si era macchiata di attentati, omicidi e sabotaggi, costati la vita a civili italiani e sloveni. Per Mattarella dovrebbe suonare almeno imbarazzante l\'atto di fede dei «martiri» di Basovizza. «Giuro davanti a Dio, sull\'onore mio e della mia famiglia, che farò tutto il possibile per la liberazione del Litorale (Venezia Giulia nda), che deve essere unito alla Jugoslavia» ripetevano gli irredentisti slavi. Lo stesso tentativo annessionistico che riuscì a Tito dopo il 1945, a parte Trieste, dove ci ha lasciato come ricordo della sua occupazione di quaranta giorni la foiba di Basovizza.
Le mosse slovene e italiane hanno spaccato gli esuli istriani sull\'intera giornata del 13 luglio. Federesuli, a cominciare dall\'Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, difendono l\'evento. Il presidente, Renzo Codarin «comprende che i presidenti, in nome della pacificazione, devono fare anche questo passaggio» al monumento dei fucilati di Basovizza. Massimiliano Lacota, leader dell\'Unione degli istriani non ci sta: «A queste condizioni non vado alla foiba. Se lo facessi, sarei obbligato a usare un mezzo della Prefettura, che poi si reca anche al monumento dei fucilati, perché tutta la zona sarà blindata. I morti si rivoltano nelle tombe. Il 13 luglio è diventato un atto politico, tutto fuorché un omaggio sincero agli infoibati».
In prefettura i capi di Stato firmeranno la cessione del palazzo dell\'allora hotel Balkan alla comunità slovena, ma anche croati e serbi rivendicano il loro spazio. Secondo la storiografia ufficiale l\'incendio del Balkan, sede del Narodni Dom, un insieme di circoli economici, culturali e ultra nazionalisti delle comunità slave, è il primo atto del fascismo triestino. La Lega nazionale e la fondazione Rustia Traine presieduta dall\'ex parlamentare, Renzo de\' Vidovich, sostengono che la storia è completamente diversa. Nella notte fra l\'11 e 12 luglio di 100 anni fa vengono uccisi a Spalato il comandante della nave «Puglia» Tommaso Gulli e il motorista Aldo Rossi in tafferugli con gli slavi. Il giorno dopo, a Trieste, si organizza una manifestazione italiana di protesta e muore il patriota Giovanni Nini, 17 anni, per mano degli slavi. Secondo de\' Vidovich «gli jugoslavisti armati (come venivano chiamati allora i nazionalisti slavi nda) si rifugiano nell\'hotel Balkan rincorsi da una folla, che voleva vendicare la morte di Nini». Il secondo piano dell\'albergo si sospetta fosse una specie di arsenale e proprio da una di quelle finestre vengono esplosi colpi di arma da fuoco e lanciata la granata che uccide Luigi Casciana, tenente del Regio Esercito in servizio di ordine pubblico. Poco dopo divampano le fiamme, proprio dal secondo piano, che in breve distruggono il palazzo. Per la storiografia ufficiale è opera dei fascisti, ma secondo la pista alternativa l\'origine sarebbe uno scoppio nella santabarbara slavista o l\'incendio scaturito dalla distruzione di documenti compromettenti.
La Slovenia ha sempre chiesto la restituzione dell\'edificio per la sua comunità a Trieste, oggi sede della «Scuola per Interpreti e Traduttori». Nel 2017 il ministro degli Esteri, Angelino Alfano, a caccia di voti per la sede dell\'Agenzia europea per i medicinali a Milano (Ema) ottiene l\'appoggio sloveno in cambio dell\'ex Balkan. L\'Italia perde l\'Ema, ma Lubiana passa comunque all\'incasso. Il risultato è che la riconsegna della Casa del popolo agli sloveni ci costerà 10 milioni di euro oltre al valore attuale del palazzo di 13 milioni. Peccato che per la vicenda del Balkan avevamo già costruito per la comunità, nel 1964, il teatro sloveno e speso altri soldi. In tutto la «riconciliazione-bidone» e blindata ci costerà una trentina di milioni.
[continua]

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10 giugno 2008 | TG3 regionale | reportage
Gli occhi della guerra.... a Bolzano /1
Il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, non dimentica i vecchi amici scomparsi. Il 10 giugno ha visitato a Bolzano la mostra fotografica “Gli occhi della guerra” dedicata ad Almerigo Grilz. La mostra è stata organizzata dal 4° Reggimento alpini paracadutisti. Gli ho illustrato le immagini forti raccolte in 25 anni di reportage assieme ad Almerigo e Gian Micalessin. La Russa ha ricordato quando "sono andato a prendere Fausto e Almerigo al ritorno da uno dei primi reportage con la mia vecchia 500 in stazione a Milano. Poco dopo li hanno ricoverati tutti e due per qualche malattia". Era il 1983, il primo reportage in Afghanistan e avevamo beccato l'epatite mangiando la misera sbobba dei mujaheddin, che combattevano contro le truppe sovietiche.

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31 ottobre 2021 | Quarta repubblica | reportage
No vax scontri al porto
I primi lacrimogeni rimbalzano sull'asfalto e arditi No Pass cercano di ributtarli verso il cordone dei carabinieri che sta avanzando per sgomberare il varco numero 4 del porto di Trieste. I manifestanti urlano di tutto «merde, vergogna» cercando pietre e bottiglie da lanciare contro le forze dell'ordine. Un attivista ingaggia lo scontro impossibile e viene travolto dalle manganellate. Una volta crollato a terra lo trascinano via oltre il loro cordone. Scene da battaglia urbana, il capoluogo giuliano non le vedeva da decenni. Portuali e No Pass presidiavano da venerdì l'ingresso più importante dello scalo per protestare contro l'introduzione obbligatoria del lasciapassare verde. In realtà i portuali, dopo varie spaccature, sono solo una trentina. Gli altri, che arriveranno fino a 1.500, sono antagonisti e anarchici, che vogliono la linea dura, molta gente venuta da fuori, più estremisti di destra. Alle 9 arrivano in massa le forze dell'ordine con camion-idranti e schiere di agenti in tenuta antisommossa. Una colonna blu che arriva da dentro il porto fino alla sbarra dell'ingresso. «Lo scalo è porto franco. Non potevano farlo. È una violazione del trattato pace (dello scorso secolo, nda)» tuona Stefano Puzzer detto Ciccio, il capopopolo dei portuali. Armati di pettorina gialla sono loro che si schierano in prima linea seduti a terra davanti ai cordoni di polizia. La resistenza è passiva e gli agenti usano gli idranti per cercare di far sloggiare la fila di portuali. Uno di loro viene preso in pieno da un getto d'acqua e cade a terra battendo la testa. Gli altri lo portano via a braccia. Un gruppo probabilmente buddista prega per evitare lo sgombero. Una signora si avvicina a mani giunte ai poliziotti implorando di retrocedere, ma altri sono più aggressivi e partono valanghe di insulti. Gli agenti avanzano al passo, metro dopo metro. I portuali fanno da cuscinetto per tentare di evitare incidenti più gravi convincendo la massa dei No Pass, che nulla hanno a che fare con lo scalo giuliano, di indietreggiare con calma. Una donna alza le mani cercando di fermare i poliziotti, altri fanno muro e la tensione sale alimentata dal getto degli idranti. «Guardateci siamo fascisti?» urla un militante ai poliziotti. Il nocciolo duro dell'estrema sinistra seguito da gran parte della piazza non vuole andarsene dal porto. Quando la trattativa con il capo della Digos fallisce la situazione degenera in scontro aperto. Diego, un cuoco No Pass, denuncia: «Hanno preso un mio amico, Vittorio, per i capelli, assestandogli una manganellata in faccia». Le forze dell'ordine sgomberano il valico, ma sul grande viale a ridosso scoppia la guerriglia. «Era gente pacifica che non ha alzato un dito - sbotta Puzzer - È un attacco squadrista». I più giovani sono scatenati e spostano i cassonetti dell'immondizia per bloccare la strada scatenando altre cariche degli agenti. Donne per nulla intimorite urlano «vergognatevi» ai carabinieri, che rimangono impassibili. In rete cominciano a venire pubblicati post terribili rivolti agli agenti: «Avete i giorni contati. Se sai dove vivono questi poliziotti vai a ucciderli».Non a caso interviene anche il presidente Sergio Mattarella: «Sorprende e addolora che proprio adesso, in cui vediamo una ripresa incoraggiante esplodano fenomeni di aggressiva contestazione». Uno dei portuali ammette: "Avevamo detto ai No Pass di indietreggiare quando le forze dell'ordine avanzavano ma non ci hanno ascoltati. Così la manifestazione pacifica è stata rovinata». Puzzer raduna le «truppe» e i rinforzi, 3mila persone, in piazza Unità d'Italia. E prende le distanze dagli oltranzisti: «Ci sono gruppi che non c'entrano con noi al porto che si stanno scontrando con le forze dell'ordine». Non è finita, oltre 100 irriducibili si scatenano nel quartiere di San Vito. E riescono a bloccare decine di camion diretti allo scalo con cassonetti dati alle fiamme in mezzo alla strada. Molti sono vestiti di nero con il volto coperto simili ai black bloc. La battaglia sul fronte del porto continua fino a sera.

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23 aprile 2012 | Premio Lago | reportage
Il premio Giorgio Lago: Arte, impresa, giornalismo, volontariato del Nord Est
Motivazione della Giuria: Giornalista di razza. Sempre sulla notizia, esposto in prima persona nei vari teatri di guerra del mondo. Penna sottile, attenta, con un grande amore per la verità raccontata a narrare le diverse vicende dell’uomo.

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27 gennaio 2020 | Radio 1 Italia sotto inchiesta | intervento
Italia
Esercito e siti ebraici
Fausto Biloslavo I nostri soldati rispettano la giornata della Memoria dell’Olocausto non solo il 27 gennaio, ma tutto l’anno. L’esercito, con l’operazione Strade sicure, schiera 24 ore al giorno ben 700 uomini in difesa di 58 siti ebraici sul territorio nazionale. Tutti obiettivi sensibili per possibile attentati oppure oltraggi anti semiti. “Per ora non è mai accaduto nulla anche grazie alla presenza dei militari, che serve da deterrenza e non solo. Il senso di sicurezza ha evitato episodi di odio e minacce ripetute come in Francia, che rischiano di provocare un esodo della comunità ebraica” spiega una fonte militare de il Giornale. I soldati, che si sono fatti le ossa all’estero, sorvegliano, quasi sempre con presidi fissi, 32 sinagoghe o tempi ebraici, 9 scuole, 4 musei e altri 13 siti distribuiti in tutta Italia, ma soprattutto al nord e al centro. La città con il più alto numero di obiettivi sensibili, il 41%, è Milano. Non a caso il comandante del raggruppamento di Strade sicure, come in altre città, è ufficialmente invitato alle celebrazioni del 27 gennaio, giorno della Memoria. Lo scorso anno, in occasione dell’anniversario della nascita dello Stato di Israele, il rappresentante della comunità ebraica di Livorno, Vittorio Mosseri, ha consegnato una targa al comandante dei paracadustisti. “Alla brigata Folgore con stima e gratitudine per il servizio di sicurezza prestato nell’ambito dell’operazione Strade sicure contribuendo con attenzione e professionalità al sereno svolgimento delle attività della nostro comunità” il testo inciso sulla targa. In questi tempi di spauracchi anti semiti l’esercito difende i siti ebraici in Italia con un numero di uomini praticamente equivalente a quello dispiegato in Afghanistan nel fortino di Herat. Grazie ad un’esperienza acquisita all’estero nella protezione delle minoranze religiose, come l’antico monastero serbo ortodosso di Decani in Kosovo. “In ogni città dove è presente la comunità ebraica esiste un responsabile della sicurezza, un professionista che collabora con le forze dell’ordine ed i militari per coordinare al meglio la vigilanza” spiega la fonte del Giornale. Una specie di “assessore” alla sicurezza, che organizza anche il sistema di sorveglianza elettronica con telecamere e sistemi anti intrusione di avanguardia su ogni sito. Non solo: se in zona appare un simbolo o una scritta anti semita, soprattuto in arabo, viene subito segnalata, fotografata, analizzata e tradotta. “I livelli di allerta talvolta si innalzano in base alla situazione internazionale” osserva la fonte militare. L’ultimo allarme ha riguardato i venti di guerra fra Iran e Stati Uniti in seguito all’eliminazione del generale Qassem Soleimani. Roma è la seconda città per siti ebraici presidiati dai militari compresi asili, scuole e oratori. Le sinagoghe sono sorvegliate pure a Napoli, Verona, Trieste e quando necessario vengono disposte le barriere di cemento per evitare attacchi con mezzi minati o utilizzati come arieti. A Venezia i soldati garantiscono la sicurezza dello storico ghetto. A Livorno e in altre città sono controllati anche i cimiteri ebraici. Una residenza per anziani legata alla comunità è pure nella lista dei siti protetti a Milano. Ed i militari di Strade sicure nel capoluogo lombardo non perdono d’occhio il memoriale della Shoah, lo sterminio degli ebrei voluto da Hitler.

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