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Recensione
13 settembre 2020 - Sito - Italia - Il Giornale |
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| Bunker, ossa e dolore: in un libro il volto nascosto della guerra |
Il mosaico di teschi nella cappella che ricorda una delle tante stragi dimenticate di Tito in Slovenia, pubblicato nelle prime pagine di questo libro, è il simbolo dell’orrore di ogni guerra. Dopo le battaglie, sulle Alpi e a qualsiasi latitudine, restano per anni, talvolta per sempre, le ossa dei soldati che si sono sacrificati da una parte e dall’altra del fronte, giusta o sbagliata. All’inizio degli anni settanta sul Monte Nero, oggi in Slovenia, spuntavano ancora quando la neve si scioglieva e smuoveva i ghiaioni le ossa dei nostri alpini, che durante la prima guerra mondiale si sono immolati per conquistare la vetta. Mio padre le raccoglieva in rispettoso silenzio trasformando la gita con il Club alpino italiano in una specie di pellegrinaggio del ricordo. Per me era la prima volta che intravedevo l’orrore dei conflitti. Molti anni dopo attratto fatalmente dai reportage di guerra ho trovato in Uganda gli altarini di teschi della follia del sanguinario Idi Amin, che ha massacrato il suo popolo. Non dimenticherò i resti avvinghiati di una madre che cercava di proteggere il figlio dalla sventagliata di mitra tirati fuori dalla prima fossa comune di Srebrenica scoperta dopo il massacro. A Sinjar, in Iraq, i teschi con i fori dei proiettili alla nuca delle vittime yazide, compresi bambini, dimostravano la furia genocida dello Stato islamico. Le guerre sono sempre rappresentate dal cumulo di ossa di chi le ha combattute o subite, come i civili, ma dei conflitti resta anche altro, che solo in apparenza è meno drammatico. Bunker, gallerie, postazioni fortificate in cemento e acciaio, mimetizzate o scavate nella roccia, sono muta testimonianza tramandata ai posteri. I conflitti lasciano sempre un segno, una cicatrice, non solo nell’animo e nelle carni, ma pure nei paesaggi più belli e affascinanti. La natura tende ad avvolgere, inghiottire, nascondere i simboli dei terribili scontri calmando gli spiriti dei caduti, ma non del tutto. Quasi volesse ricordare ai vivi cosa significa la furia, maestosa e terribile, della guerra. “Alpi - teatro di battaglie - 1940-1945” di Alessio Franconi fotografa perfettamente questi “monumenti” della seconda guerra mondiale tornati alla natura, oramai svuotati per sempre della valenza bellica per lasciare spazio al ricordo. Un’inevitabile seconda tappa iniziata con il primo libro “Si combatteva qui!” sui luoghi dove è stata consumata nel sangue la Grande guerra. Indro Montanelli, che per me è stato un maestro ed Ettore Mo, che ho conosciuto durante i reportage hanno fatto parte di quella classe di giornalisti che vanno a cercare le notizie sul campo. E la loro bravura e determinazione, come voleva la leggenda, si misurava anche dalla suola delle scarpe, quanto era consumata e bucata a furia di camminare per portare a casa il pezzo. L’autore fa propria questa usanza dei migliori reporter marciando in lungo e in largo attraverso le Alpi alla ricerca dei luoghi perduti della seconda guerra mondiale. E offrendo al lettore la chicca dei possibili percorsi da ripetere per vivere dal vero le emozioni trasmesse dal libro. In gran parte luoghi a lungo dimenticati in nome del politicamente corretto o perché sono passati agli onori della storia battaglie epiche in altri continenti come El Alamein e disastrose disfatte raffigurate dalla tremenda ritirata di Russia. Sulle Alpi con i francesi o nella Slovenia costellata di massacri da ambo le parti si sono combattute aspre battaglie, che rivivono in queste pagine. Grazie all’originalità fotografica di Alessio Franconi, che scatta sempre senza nessuna presenza umana attorno. L’immagine si concentra sui resti silenti delle fortificazioni invecchiate dal tempo, ma che sono ancora capaci di trasmettere i ricordi dei furiosi scontri o delle stragi di allora. Talvolta gli scheletri di cemento sono ancora bucherellati dai proiettili di mitragliatrice o dalle schegge. Franconi si apposta fra i monti e nelle boscaglie per ritrovare il momento giusto, la luce o la nebbia giusta per resuscitare i bunker come se fossimo ancora nel 1940. E si infila nei cunicoli della linea Maginot o scende le scale a pioli ferrate che ti portano nelle viscere della terra dove gli uomini si barricavano come topi per resistere e reagire alla valanga di fuoco dell’artiglieria. La seconda guerra mondiale torna alla luce non solo con le immagini, ma grazie alle parole dei diari di chi l’ha combattuta, come il nonno dell’autore.“Muli squarciati, soldati dell’artiglieria caduti accanto, un infinità di cose buttate con lo scopo evidente di alleggerirsi e passare oltre [il fuoco di sbarramento n.d.a.] il più presto possibile, qui si sente veramente la tragicità della guerra” scriveva Giovanni Drago durante l’avanzata in Francia al Lac de color nel Vallon de Savine. Le possenti fortificazioni della linea Maginot, che si estendeva fino al mare, hanno solo rallentato l’offensiva e la momentanea fine della Grandeur già stritolata dai tedeschi. I bunker, però, tornano a parlare: “Continuiamo la lotta all’interno, ma il nemico scaglia delle bombe a mano nelle feritoie che vengono a cadere ai piedi dei tiratori” è la testimonianza del comandante Lanteri dell’esercito francese. Sfogliando le pagine del libro sulla guerra di ieri mi tornano alla mente quelle di oggi con lo stesso groviera di postazioni degli uomini in armi, che come formiche sperano di resistere alla fine. Le fitte trincee dei talebani che percorrevano da una parte all’altra la piana di Shomali, ultima difesa prima di Kabul, prima incenerite dal cielo dai B 52 americani in una tempesta di fuoco e poi travolte da uno sciame di carri armati dei mujaheddin che combattevano contro gli integralisti. O la grande galleria di una vecchia ferrovia a ridosso dell’aeroporto di Mosul, gigantesco rifugio e campo di addestramento sotterraneo delle bandiere nere dello Stato islamico conquistato durante la liberazione della “capitale” del Califfato. Oppure la cintura di trincee serbe sulle colline di Sarajevo diventate oggi percorso “turistico”, come l’ingresso del tunnel sotto l’aeroporto unica via nella bolgia della guerra etnica per raggiungere Sarajevo assediata e ridotta alla fame. Nel 1994 lo avevo percorso sotto il martellare dei mortai che facevano tremare le pareti. Cicatrici materiali delle guerra, che sembrano non scomparire mai e che Franconi ha rintracciato lungo le Alpi. Il libro sfiora anche la tragedia delle foibe, non solo quelle delle vittime italiane, ma pure dell’immane eccidio dei prigionieri di guerra sloveni, croati e serbi, che avevano combattuto pure contro i nazisti, massacrati per ordine di Tito quando la guerra era finita da settimane. Una storia celata per tanto tempo dai vincitori, che meriterebbe un volume a parte nell’ideale trilogia di questo ricordo fotografico del Novecento segnato da due guerre mondiali. Un passato che sembra lontano, ma che potrebbe sempre riaffacciarsi come i dieci anni della sanguinosa implosione della ex Jugoslavia. Ogni volta che torno a casa dopo un reportage di guerra in paesi lontani prendo il treno diretto a Trieste. E quando i binari costeggiano il mare della mia città riaffiorano, come dei flash, i momenti più drammatici vissuti in prima linea. Poi guardo il golfo del capoluogo giuliano, che potrebbe essere qualsiasi luogo della nostra nostra bellissima Italia e mi rendo conto di quanto siamo fortunati a vivere da 70 anni in pace. Per questo il senso del libro si racchiude tutto in una frase dell’autore: “Viaggiare, ricordare ed esplorare per non ripetere” gli orrori della guerra. Fausto Biloslavo |
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11 novembre 2008 | Centenario della Federazione della stampa | reportage
A Trieste una targa per Almerigo Grilz e tutti i caduti sul fronte dell'informazione
Ci sono voluti 21 anni, epiche battaglie a colpi di articoli, proteste, un libro fotografico ed una mostra, ma alla fine anche la "casta" dei giornalisti triestini ricorda Almerigo Grilz. L'11 novembre, nella sala del Consiglio comunale del capoluogo giuliano, ha preso la parola il presidente dell'Ordine dei giornalisti del Friuli-Venezia Giulia, Pietro Villotta. Con un appassionato discorso ha spiegato la scelta di affiggere all'ingresso del palazzo della stampa a Trieste una grande targa in cristallo con i nomi di tutti i giornalisti italiani caduti in guerra, per mano della mafia o del terrorismo dal 1945 a oggi. In rigoroso ordine alfabetico c'era anche quello di Almerigo Grilz, che per anni è stato volutamente dimenticato dai giornalisti triestini, che ricordavano solo i colleghi del capoluogo giuliano uccisi a Mostar e a Mogadiscio. La targa è stata scoperta in occasione della celebrazione del centenario della Federazione nazionale della stampa italiana. Il sindacato unico ha aderito all'iniziativa senza dimostrare grande entusiasmo e non menzionando mai, negli interventi ufficiali, il nome di Grilz, ma va bene lo stesso. Vale la pena dire: "Meglio tardi che mai". E da adesso speriamo veramente di aver voltato pagina sul "buco nero" che ha avvolto per anni Almerigo Grilz, l'inviato ignoto.
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06 giugno 2017 | Sky TG 24 | reportage
Terrorismo da Bologna a Londra
Fausto Biloslavo
"Vado a fare il terrorista” è l’incredibile affermazione di Youssef Zaghba, il terzo killer jihadista del ponte di Londra, quando era stato fermato il 15 marzo dello scorso anno all’aeroporto Marconi di Bologna. Il ragazzo nato nel 1995 a Fez, in Marocco, ma con il passaporto italiano grazie alla madre Khadija (Valeria) Collina, aveva in tasca un biglietto di sola andata per Istanbul e uno zainetto come bagaglio. Il futuro terrorista voleva raggiungere la Siria per arruolarsi nello Stato islamico. Gli agenti di polizia in servizio allo scalo Marconi lo hanno fermato proprio perché destava sospetti. Nonostante sul cellulare avesse materiale islamico di stampo integralista è stato lasciato andare ed il tribunale del riesame gli ha restituito il telefonino ed il computer sequestrato in casa, prima di un esame approfondito dei contenuti.
Le autorità inglesi hanno rivelato ieri il nome del terzo uomo sostenendo che non “era di interesse” né da parte di Scotland Yard, né per l’MI5, il servizio segreto interno. Il procuratore di Bologna, Giuseppe Amato, ha dichiarato a Radio 24, che "venne segnalato a Londra come possibile sospetto”. E sarebbero state informate anche le autorità marocchine, ma una fonte del Giornale, che ha accesso alle banche dati rivela “che non era inserito nella lista dei sospetti foreign fighter, unica per tutta Europa”.
Non solo: Il Giornale è a conoscenza che Zaghba, ancora minorenne, era stato fermato nel 2013 da solo, a Bologna per un controllo delle forze dell’ordine senza esiti particolari. Il procuratore capo ha confermato che l’italo marocchino "in un anno e mezzo, è venuto 10 giorni in Italia ed è stato sempre seguito dalla Digos di Bologna. Abbiamo fatto tutto quello che si poteva fare, ma non c'erano gli elementi di prova che lui fosse un terrorista. Era un soggetto sospettato per alcune modalità di comportamento".
Presentarsi come aspirante terrorista all’imbarco a Bologna per Istanbul non è poco, soprattutto se, come aveva rivelato la madre alla Digos “mi aveva detto che voleva andare a Roma”. Il 15 marzo dello scorso anno il procuratore aggiunto di Bologna, Valter Giovannini, che allora dirigeva il pool anti terrorismo si è occupato del caso disponendo un fermo per identificazione al fine di accertare l’identità del giovane. La Digos ha contattato la madre, che è venuta a prenderlo allo scalo ammettendo: "Non lo riconosco più, mi spaventa. Traffica tutto il giorno davanti al computer per vedere cose strane” ovvero filmati jihadisti. La procura ha ordinato la perquisizione in casa e sequestrato oltre al cellulare, alcune sim ed il pc.
La madre si era convertita all’Islam quando ha sposato Mohammed il padre marocchino del terrorista che risiede a Casablanca. Prima del divorzio hanno vissuto a lungo in Marocco. Poi la donna è tornata casa nella frazione di Fagnano di Castello di Serravalle, in provincia di Bologna. Il figlio jihadista aveva trovato lavoro a Londra, ma nella capitale inglese era entrato in contatto con la cellula di radicali islamici, che faceva riferimento all’imam, oggi in carcere, Anjem Choudary. Il timore è che il giovane italo-marocchino possa essere stato convinto a partire per la Siria da Sajeel Shahid, luogotenente di Choudary, nella lista nera dell’ Fbi e sospettato di aver addestrato in Pakistan i terroristi dell’attacco alla metro di Londra del 2005. "Prima di conoscere quelle persone non si era mai comportato in maniera così strana” aveva detto la madre alla Digos.
Il paradosso è che nessuna legge permetteva di trattenere a Bologna il sospetto foreign fighter ed il tribunale del riesame ha accolto l’istanza del suo avvocato di restituirgli il materiale elettronico sequestrato. “Nove su dieci, in questi casi, la richiesta non viene respinte” spiega una fonte del Giornale, che conosce bene la vicenda. Non esiste copia del materiale trovato, che secondo alcune fonti erano veri e propri proclami delle bandiere nere. E non è stato possibile fare un esame più approfondito per individuare i contatti del giovane. Il risultato è che l’italo-marocchino ha potuto partecipare alla mattanza del ponte di Londra.
Parenti e vicini cadono dalle nuvole. La zia acquisita della madre, Franca Lambertini, non ha dubbi: “Era un bravo ragazzo, l'ultima volta che l'ho visto mi ha detto “ciao zia”. Non avrei mai pensato a una cosa del genere".
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29 dicembre 2010 | | reportage
Gli occhi della guerra a Trieste
Dopo aver portato la mostra su 25 anni di reportage di guerra in tutta Italia, finalmente il 29 dicembre è stata inaugurata a Trieste, presso la sala espositiva della Parrocchia di Santa Maria Maggiore, via del Collegio 6. Gli occhi della guerra sono dedicati ad Almerigo Grilz e a tutti i giornalisti caduti sul fronte dell'informazione. La mostra rimarrà aperta al pubblico dal 10 al 20 gennaio. L'evento è stato organizzato dal Circolo universitario Hobbit con la sponsorizzazione della Regione.
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27 gennaio 2020 | Radio 1 Italia sotto inchiesta | intervento |
Italia
Esercito e siti ebraici
Fausto Biloslavo
I nostri soldati rispettano la giornata della Memoria dell’Olocausto non solo il 27 gennaio, ma tutto l’anno. L’esercito, con l’operazione Strade sicure, schiera 24 ore al giorno ben 700 uomini in difesa di 58 siti ebraici sul territorio nazionale. Tutti obiettivi sensibili per possibile attentati oppure oltraggi anti semiti.
“Per ora non è mai accaduto nulla anche grazie alla presenza dei militari, che serve da deterrenza e non solo. Il senso di sicurezza ha evitato episodi di odio e minacce ripetute come in Francia, che rischiano di provocare un esodo della comunità ebraica” spiega una fonte militare de il Giornale.
I soldati, che si sono fatti le ossa all’estero, sorvegliano, quasi sempre con presidi fissi, 32 sinagoghe o tempi ebraici, 9 scuole, 4 musei e altri 13 siti distribuiti in tutta Italia, ma soprattutto al nord e al centro. La città con il più alto numero di obiettivi sensibili, il 41%, è Milano. Non a caso il comandante del raggruppamento di Strade sicure, come in altre città, è ufficialmente invitato alle celebrazioni del 27 gennaio, giorno della Memoria.
Lo scorso anno, in occasione dell’anniversario della nascita dello Stato di Israele, il rappresentante della comunità ebraica di Livorno, Vittorio Mosseri, ha consegnato una targa al comandante dei paracadustisti. “Alla brigata Folgore con stima e gratitudine per il servizio di sicurezza prestato nell’ambito dell’operazione Strade sicure contribuendo con attenzione e professionalità al sereno svolgimento delle attività della nostro comunità” il testo inciso sulla targa.
In questi tempi di spauracchi anti semiti l’esercito difende i siti ebraici in Italia con un numero di uomini praticamente equivalente a quello dispiegato in Afghanistan nel fortino di Herat. Grazie ad un’esperienza acquisita all’estero nella protezione delle minoranze religiose, come l’antico monastero serbo ortodosso di Decani in Kosovo.
“In ogni città dove è presente la comunità ebraica esiste un responsabile della sicurezza, un professionista che collabora con le forze dell’ordine ed i militari per coordinare al meglio la vigilanza” spiega la fonte del Giornale. Una specie di “assessore” alla sicurezza, che organizza anche il sistema di sorveglianza elettronica con telecamere e sistemi anti intrusione di avanguardia su ogni sito. Non solo: se in zona appare un simbolo o una scritta anti semita, soprattuto in arabo, viene subito segnalata, fotografata, analizzata e tradotta. “I livelli di allerta talvolta si innalzano in base alla situazione internazionale” osserva la fonte militare. L’ultimo allarme ha riguardato i venti di guerra fra Iran e Stati Uniti in seguito all’eliminazione del generale Qassem Soleimani.
Roma è la seconda città per siti ebraici presidiati dai militari compresi asili, scuole e oratori. Le sinagoghe sono sorvegliate pure a Napoli, Verona, Trieste e quando necessario vengono disposte le barriere di cemento per evitare attacchi con mezzi minati o utilizzati come arieti. A Venezia i soldati garantiscono la sicurezza dello storico ghetto. A Livorno e in altre città sono controllati anche i cimiteri ebraici. Una residenza per anziani legata alla comunità è pure nella lista dei siti protetti a Milano. Ed i militari di Strade sicure nel capoluogo lombardo non perdono d’occhio il memoriale della Shoah, lo sterminio degli ebrei voluto da Hitler.
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