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Reportage
02 novembre 2022 - Interni - Italia - Panorama
Il nome di quei marò è più vicino
Fausto Biloslavo
BARI - “Ogni giorno mi sono immaginata la scena straziante della loro fine. Giovani come noi massacrati a guerra conclusa” racconta l’antropologa Alessia Leggio, che per otto mesi ha lavorato al cold case dei marò all’istituto di Medicina legale dell’università di Bari. “Il pensiero era costante mentre rimettevamo assieme, come un puzzle, i poveri resti e piano piano si formava lo scheletro di questi ragazzi. I crani con i segni evidenti delle violenze a colpi di mazza ferrata ed i fori dei proiettili dell’esecuzione” spiega la giovane specialista. Assieme ad una squadra che assomiglia alle serie tv di successo sui medici legali sta componendo i resti della cassetta grigia, numero 1, con la stella della Repubblica. Cranio, ossa lunghe, vertebre della spina dorsale sul freddo tavolo metallico delle autopsie. Lo scheletro di uno dei 21 marò della X Mas e 6 militi del battaglione Tramontana di Cherso, che nel 1945 furono trucidati dai partigiani di Tito e gettati in una fossa comune a Ossero, oggi in Croazia. Prigionieri di guerra inermi che si erano arresi, il 21 aprile a Neresine sull’isola di Cherso, vittime di violenze inaudite oggi tornate alla luce. Nel 2019 il Commissariato generale per le onoranze ai caduti del ministero della Difesa, in collaborazione con le autorità croate, aveva finalmente riesumato dalla fossa di Ossero i resti dei soldati italiani. Le 27 cassette con su scritto “caduto ignoto”, avvolte dal Tricolore, sono state trasferite con tutti gli onori al Sacrario militare di Bari dei 70mila periti oltremare nella prima e seconda guerra mondiale. Gli esuli della Comunità di Lussinpiccolo hanno lanciato attraverso il sito di Panorama una raccolta fondi per identificare i marò e dare un nome e cognome ai resti. Grazie alle centinaia di donazioni, che hanno raggiunto i 26.138 euro, è partito il progetto con l’adesione dell’università di Bari e Trieste, che hanno firmato lo scorso febbraio una convenzione con la Difesa.
Dopo la fase iniziale di composizione e analisi dei resti nel capoluogo pugliese il nome dei marò è più vicino. “Abbiamo compiuto il primo passo componendo le ossa per stabilire età, razza, altezza e capire come sono stati uccisi” spiega Francesco Introna, direttore dell’Istituto di Medicina legale a Bari ed esperto in antropologia forense. Il cranio del caduto ignoto numero 1 ha un buco quadrato di 4 centimetri per 4 e l’evidente foro di un proiettile. “Lo abbiamo trovato su tutti e pensiamo che sia stata usata una mazza ferrata per finirli - dichiara Introna - Non ci sono tracce di indumenti. Solo il bottone di una camicia. Significa che sono stati denudati prima di arrivare alla fossa”. I marò devono avere scavato la loro tomba comune, a fianco di una chiesa, sotto la minaccia delle armi. Poi sono stati allineati sul bordo e probabilmente fatti inginocchiare prima dell’esecuzione. “Ci deve essere stata una sorta di fucilazione perchè abbiamo trovato lesioni di proiettile a livello della colonna vertebrale - spiega Maria Grazia Calvano, medico legale - Poi il colpo di grazia alla base della nuca e violenti fendenti in testa con una mazza ferrata, o qualcosa del genere, che ha sfondato il cranio delle vittime”.
Le ossa “parlano” e raccontano pure di un ultimo oltraggio. “I corpi sono stati maciullati con un mezzo pesante, camion o cingolato. Forse per non farli riconoscere. E’ evidente dallo schiacciamento dei resti” spiega Introna, che ha partecipato alla riesumazione delle vittime delle stragi serbe in Kosovo. E aggiunge: “Non mi aspettavo l’accanimento con la mazza ferrata. E poi triturarli nel totale disprezzo dell’essere umano. X Mas? Erano prigionieri e dovevano venire trattati come tali. Non c’è dubbio che sia un crimine di guerra”.
Il progetto non ha alcun risvolto politico o revisionista. Non si tratta di assolvere o riabilitare la X Mas, ma solo “di ridare l’identità ai resti di un caduto ignoto perchè ognuno ha diritto a una tomba con un nome e cognome, a  cominciare dai familiari” osserva Calvano. La squadra di Bari ammette “l’emozione non solo dal punto di vista professionale, ma per la ricostruzione di un piccolo pezzo di storia dimenticato, che a noi giovani è stata raccontata troppo poco”.
La prima fase del progetto di identificazione si è conclusa con una corposa relazione di 780 pagine consegnata al generale Gualtiero Mario De Cicco di Onor caduti. Non mancano le sorprese: a Bari hanno scoperto i resti di altri cinque uomini, rispetto ai 27 previsti, forse soldati tedeschi. Durante la riesumazione a Ossero sono emersi dalla fossa comune un bottone nero di un’uniforme italiana e un altro con l’ancora della Marina che potrebbe essere di una divisa tedesca.
Adesso si entra nel vivo con l’esame del Dna. Le 32 cassette metalliche grigie rimangono allineate nella sala delle autopsie di Bari, ma altre due, avvolte dal Tricolore, sono a parte. “Contengono 350 campioni prelevati dai resti, soprattutto dalle ossa dei femori, che permettono un maggior successo per l’identificazione”  spiega Paolo Fattorini, direttore della Scuola di specializzazione in Medicina Legale a Trieste. Su 21 caduti della X Mas sono stati rintracciati 14 familiari. “Dopo 77 anni si tratta soprattutto di nipoti, ma c’è anche qualche sorella e un figlio che vive negli Stati Uniti - osserva Fattorini - Abbiamo costruito dei kit di auto prelievo del campione salivare e siamo pronti per l’esame del Dna”. Un lavoro lungo e complesso che durerà altri 6-9 mesi. “Le due cassette con i frammenti verrano trasportati da noi militari a Trieste verso metà novembre” conferma il maggiore Cosimo De Libero, direttore del Sacrario dei caduti di oltremare di Bari.
“Ci tengo moltissimo non solo dal punto di vista scientifico. Mia madre era profuga istriana di Portole e il nonno, suo padre, ufficiale dell’esercito italiano si è salvato per miracolo - ammette Fattorini - I marò sono soldati trucidati e appartengono alla storia bella o brutta del nostro paese. Tutti i resti dei caduti hanno diritto a un nome e cognome”.
Licia Giadrossi presidente della Comunità di Lussinpiccolo, che ha dato il via  all’iniziativa raccogliendo i fondi attraverso panorama.it  auspica “di arrivare a un risultato concreto nell’identificazione dei marò, che attendo con ansia. E’ stata lunga e tribolata, ma adesso siamo alla fase finale”.   
Il primo a svelare la storia celata dei marò trucidati a Ossero è stato il capitano Federico Scopinich nel 2008 sul “Foglio di Lussino”, periodico degli esuli, grazie a testimonianze raccolte sul posto. Un altro “mastino” del cold case è Riccardo Maculan, che con una lunga e minuziosa ricerca ha rintracciato i familiari dei marò per l’esame del Dna. “Associato a un nome e cognome del caduto avevo solo data e luogo di nascita - racconta l’ex carabiniere - In un caso tutti i parenti erano scomparsi. Solo un nipote, non ne ha voluto sapere dicendo che i resti dello zio riposino in pace”.
Uno degli ultimi rintracciati oltreoceano è il figlio, emigrato negli Usa nel 1951, di Giuseppe Pino Mangolini, trucidato a Ossero e nato a Pola. Francesco De Muru era un altro dei marò passati per le armi dai partigiani di Tito. Classe 1924 partì giovanissimo da Posada, in provincia di Nuoro, per la guerra. La nipote Maria Antonietta ha raccontato a Panorama che la “famiglia non ha mai più saputo nulla. Era ufficialmente disperso”. Suo figlio ha aperto un ristorante chiamandolo FraDe meu, in ricordo del marò caduto e all’interno c’è un dipinto speciale. Il mare di Ossero e il caduto di spalle che guarda verso l’Italia. “L’emozione è fortissima, non riesco neanche a descriverla - dice Maria Antonietta - Speriamo tanto che arrivi la notizia dell’identificazione per portare mio zio, finalmente, a casa”.
[continua]

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11 novembre 2008 | Centenario della Federazione della stampa | reportage
A Trieste una targa per Almerigo Grilz
e tutti i caduti sul fronte dell'informazione

Ci sono voluti 21 anni, epiche battaglie a colpi di articoli, proteste, un libro fotografico ed una mostra, ma alla fine anche la "casta" dei giornalisti triestini ricorda Almerigo Grilz. L'11 novembre, nella sala del Consiglio comunale del capoluogo giuliano, ha preso la parola il presidente dell'Ordine dei giornalisti del Friuli-Venezia Giulia, Pietro Villotta. Con un appassionato discorso ha spiegato la scelta di affiggere all'ingresso del palazzo della stampa a Trieste una grande targa in cristallo con i nomi di tutti i giornalisti italiani caduti in guerra, per mano della mafia o del terrorismo dal 1945 a oggi. In rigoroso ordine alfabetico c'era anche quello di Almerigo Grilz, che per anni è stato volutamente dimenticato dai giornalisti triestini, che ricordavano solo i colleghi del capoluogo giuliano uccisi a Mostar e a Mogadiscio. La targa è stata scoperta in occasione della celebrazione del centenario della Federazione nazionale della stampa italiana. Il sindacato unico ha aderito all'iniziativa senza dimostrare grande entusiasmo e non menzionando mai, negli interventi ufficiali, il nome di Grilz, ma va bene lo stesso. Vale la pena dire: "Meglio tardi che mai". E da adesso speriamo veramente di aver voltato pagina sul "buco nero" che ha avvolto per anni Almerigo Grilz, l'inviato ignoto.

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05 aprile 2020 | Tg5 | reportage
Virus, il fronte che resiste in Friuli-Venezia Giulia
Fausto Biloslavo TRIESTE - “Anche noi abbiamo paura. E’ un momento difficile per tutti, ma dobbiamo fare il nostro dovere con la maggiore dedizione possibile” spiega Demis Pizzolitto, veterano delle ambulanze del 118 nel capoluogo giuliano lanciate nella “guerra” contro il virus maledetto. La battaglia quotidiana inizia con la vestizione: tuta bianca, doppi guanti, visiera e mascherina per difendersi dal contagio. Il veterano è in coppia con Fabio Tripodi, una “recluta” arrivata da poco, ma subito spedita al fronte. Le due tute bianche si lanciano nella mischia armati di barella per i pazienti Covid. “Mi è rimasta impressa una signora anziana, positiva al virus, che abbiamo trasportato di notte - racconta l’infermiere Pizzolitto - In ambulanza mi ha raccontato del marito invalido rimasto a casa. E soffriva all’idea di averlo lasciato solo con la paura che nessuno si sarebbe occupato di lui”. Bardati come due marziani spariscono nell’ospedale Maggiore di Trieste, dove sono ricoverati un centinaio di positivi, per trasferire un infetto che ha bisogno di maggiori cure. Quando tornano caricano dietro la barella e si chiudono dentro l’ambulanza con il paziente semi incosciente. Si vede solo il volto scavato che spunta dalle lenzuola bianche. Poi via a sirene spiegate verso l’ospedale di Cattinara, dove la terapia intensiva è l’ultima trincea per fermare il virus. Il Friuli-Venezia Giulia è il fronte del Nord Est che resiste al virus grazie a restrizioni draconiane, anche se negli ultimi giorni la gente comincia ad uscire troppo di casa. Un decimo della popolazione rispetto alla Lombardia ha aiutato a evitare l’inferno di Bergamo e Brescia. Il 4 aprile i contagiati erano 1986, i decessi 145, le guarigioni 220 e 1103 persone si trovano in isolamento a casa. Anche in Friuli-Venezia Giulia, come in gran parte d’Italia, le protezioni individuali per chi combatte il virus non bastano mai. “Siamo messi molto male. Le stiamo centellinando. Più che con le mascherine abbiamo avuto grandi difficoltà con visiere, occhiali e tute” ammette Antonio Poggiana, direttore generale dell’Azienda sanitaria di Trieste e Gorizia. Negli ultimi giorni sono arrivate nuove forniture, ma l’emergenza riguarda anche le residenze per anziani, flagellate dal virus. “Sono “bombe” virali innescate - spiega Alberto Peratoner responsabile del 118 - Muoiono molti più anziani di quelli certificati, anche 4-5 al giorno, ma non vengono fatti i tamponi”. Nell’ospedale di Cattinara “la terapia intensiva è la prima linea di risposta contro il virus, il nemico invisibile che stiamo combattendo ogni giorno” spiega Umberto Lucangelo, direttore del dipartimento di emergenza. Borse sotto gli occhi vive in ospedale e da separato in casa con la moglie per evitare qualsiasi rischio. Nella trincea sanitaria l’emergenza si tocca con mano. Barbara si prepara con la tuta anti contagio che la copre dalla testa ai piedi. Un’altra infermiera chiude tutti i possibili spiragli delle cerniere con larghe strisce di cerotto, come nei film. Simile ad un “palombaro” le scrivono sulla schiena il nome e l’orario di ingresso con un pennarello nero. Poi Barbara procede in un’anticamera con una porta a vetri. E quando è completamente isolata allarga le braccia e si apre l’ingresso del campo di battaglia. Ventuno pazienti intubati lottano contro la morte grazie agli angeli in tuta bianca che non li mollano un secondo, giorno e notte. L’anziano con la chioma argento sembra solo addormentato se non fosse per l’infinità di cannule infilate nel corpo, sensori e macchinari che pulsano attorno. Una signora è coperta da un telo blu e come tutti i pazienti critici ripresa dalle telecamere a circuito chiuso. Mara, occhioni neri, visiera e mascherina spunta da dietro la vetrata protettiva con uno sguardo di speranza. All’interfono racconta l’emozione “del primo ragazzo che sono riuscito a svegliare. Quando mi ha visto ha alzato entrambi i pollici in segno di ok”. E se qualcuno non ce la fa Mara spiega “che siamo preparati ad accompagnare le persone verso la morte nella maniera più dignitosa. Io le tengo per mano per non lasciarle sole fino all’ultimo momento”. Erica Venier, la capo turno, vuole ringraziare “con tutto il cuore” i triestini che ogni giorno fanno arrivare dolci, frutta, generi di conforto ai combattenti della terapia intensiva. Graziano Di Gregorio, infermiere del turno mattutino, è un veterano: “Dopo 22 anni di esperienza non avrei mai pensato di trovarmi in una trincea del genere”. Il fiore all’occhiello della rianimazione di Cattinara è di non aver perso un solo paziente, ma Di Gregorio racconta: “Infermieri di altre terapie intensive hanno dovuto dare l’estrema unzione perchè i pazienti sono soli e non si può fare diversamente”. L’azienda sanitaria sta acquistando una trentina di tablet per cercare di mantenere un contatto con i familiari e permettere l’estremo saluto. Prima di venire intubati, l’ultima spiaggia, i contagiati che hanno difficoltà a respirare sono aiutati con maschere o caschi in un altro reparto. Il direttore, Marco Confalonieri, racconta: “Mio nonno era un ragazzo del ’99, che ha combattuto sul Piave durante il primo conflitto mondiale. Ho lanciato nella mischia 13 giovani appena assunti. Sono i ragazzi del ’99 di questa guerra”.

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16 febbraio 2007 | Otto e Mezzo | reportage
Foibe, conflitto sulla storia
Foibe, conflitto sulla storia

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radio

25 maggio 2010 | Spazio Radio - Radio 1 | intervento
Italia
L'Islam nelle carceri italiane
In Italia su oltre 23mila detenuti stranieri, 9840 risultano musulmani, secondo i dati ufficiali. Almeno seimila, però, non si sono dichiarati. Il rapporto di 364 pagine, “La radicalizzazione jihadista nelle istituzioni penitenziarie europee”, realizzato dall’esperto di Islam nella carceri, Sergio Bianchi, ne indica 13mila.
In Italia ci sono circa 80 islamici dietro le sbarre per reati connessi al terrorismo. Dal 2009 li hanno concentrati in quattro istituti di pena: ad Asti, Macomer, Benevento e Rossano. Nel carcere di Opera, invece, sono arrivati Adel Ben Mabrouk, Nasri Riadh e Moez Abdel Qader Fezzani, ex prigionieri di Guantanamo. Chi li controlla ogni giorno racconta che parlano in italiano. La guerra santa in Afghanistan l’hanno abbracciata dopo aver vissuto come extracomunicatori nel nostro paese. Non si possono incontrare fra loro e vivono in celle singole. Pregano regolarmente con molta devozione e hanno mantenuto i barboni islamici.

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03 gennaio 2011 | Radio Capodistria - Storie di bipedi | intervento
Italia
Gli occhi della guerra
Le orbite rossastre di un bambino soldato, lo sguardo terrorizzato di un prigioniero che attende il plotone di esecuzione, l’ultimo rigagnolo di vita nelle pupille di un ferito sono gli occhi della guerra incrociati in tanti reportage di prima linea. Dopo l’esposizione in una dozzina di città la mostra fotografica “Gli occhi della guerra” è stata inaugurata a Trieste. Una collezione di immagini forti scattate in 25 anni di reportage da Fausto Biloslavo, Gian Micalessin e Almerigo Grilz, ucciso il 19 maggio 1987 in Mozambico, mentre filmava uno scontro a fuoco. La mostra, che rimarrà aperta al pubblico fino al 20 gennaio, è organizzata dall’associazione Hobbit e finanziata dalla regione Friuli-Venezia Giulia. L’esposizione è dedicata a Grilz e a tutti i giornalisti caduti in prima linea. Il prossimo marzo verrà ospitata a Bruxelles presso il parlamento europeo.Della storia dell'Albatross press agency,della mostra e del libro fotografico Gli occhi della guerra ne parlo a Radio Capodistria con Andro Merkù.

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20 giugno 2017 | WDR | intervento
Italia
Più cittadini italiani con lo ius soli
Estendere la cittadinanza italiana ai bambini figli di stranieri? È la proposta di legge in discussione in Senato in questi giorni. Abbiamo sentito favorevoli e contrari.

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06 settembre 2018 | Radio immaginaria | intervento
Italia
Teen Parade
Gli adolescenti mi intervistano sulla passione per i reportage di guerra

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24 maggio 2010 | Radio Padania Libera | intervento
Italia
Proselitismo islamico dietro le sbarre
“Penso che sia giusto se alcuni musulmani combattono la guerra santa contro gli americani in paesi che non sono la loro terra”. Dopo un lungo girarci attorno Kamel Adid sorprende un po’ tutti, quando sputa il rospo. La domanda riguardava i mujaheddin, i musulmani pronti a morire per Allah, contro l’invasore infedele. Tre soldati della guerra santa, arrivati un paio di mesi fa da Guantanamo, sono rinchiusi poco più in là, nel reparto di massima sicurezza del carcere di Opera, alle porte di Milano.
Adid è un giovane marocchino di 31 anni con barbetta islamica d’ordinanza e tunica color noce. Nel carcere modello di Opera fa l’imam dei 44 musulmani detenuti, che frequentano una grande sala adibita a moschea. Un predicatore fai da te, che di solito parla un linguaggio moderato e ti guarda con occhioni apparentemente timidi.
Deve scontare ancora due mesi di pena per un reato legato alla droga e da pochi giorni è stato trasferito in un altro istituto. “Quelli che si fanno saltare in aria subiscono il lavaggio del cervello – si affretta a spiegare l’autonominato imam – Noi abbiamo riscoperto la fede in carcere. Pregare ci da conforto, ci aiuta ad avere speranza”.

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