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Intervista esclusiva
08 settembre 2023 - Interni - Italia - Il Giornale
“Il libro di Vannacci? La maggioranza silenziosa con lui ora ha una voce”
Trieste Un alpino, un esule istriano nel cuore, un patriota.
Sono le parole che descrivono nel modo migliore Silvio Mazzaroli. Generale in congedo dopo una lunga carriera dal Mozambico al Kosovo, dove fu silurato per avere detto la verità, non ha peli sulla lingua sul «Mondo al contrario» del generale Vannacci e tira fuori qualche sassolino nella scarpa.

Lei ha letto libro delle polemiche. Cosa ne pensa?
«Sì, in tre giorni. Direi che si tratta di un testo stimolante, interessante e improntato, come sostiene l’autore, sul buon senso. Ho trovato solo argomentazioni lecite, accettabili e per lo più ben documentate a sostegno di un modo di pensare che sento anche mio e, ritengo, di quella “maggioranza silenziosa”, ma autolesionista, che colpevolmente quasi mai fa sentire la propria voce».

Alcuni passaggi sui gay, Paola Egonu, sull’odio non sono troppo esagerati e provocatori?
«Evidentemente per qualcuno è così. Personalmente ho trovato i toni dell’autore decisi e inequivocabili, ma non direttamente offensivi per chicchessia. Sono uno sportivo e avrei evitato di citare Egonu soprattutto perché ormai sono molti i giovani di colore che tengono alto nello sport il prestigio italiano. Dovendo indicare un personaggio di colore poco rappresentativo della gente italica avrei citato il noto “parlamentare con gli stivale infangati” Aboubakar Soumahoro».

Si aspettava che diventasse un best seller in termini di vendite?
«Inizialmente no e sono convinto, stante la scarsa propensione alla lettura degli italiani, che a decretarne il successo commerciale siano state più le polemiche ingenerate dalla sua uscita».

Non era meglio pubblicare Il mondo al contrario una volta in congedo?
«Sinceramente l’ho pensato anch’io. Tuttavia, se pubblicato in congedo non avrebbe suscitato lo stesso scalpore e probabilmente solo pochi amici lo avrebbero letto. Sarebbe stato un peccato. Che se ne parli non mi dispiace affatto poiché anch’io sono insofferente rispetto al “politicamente corretto” e al “pensiero unico” che molti – in effetti, come evidenziato nel libro, un’esigua minoranza – si danno da fare per imporre a chi la pensa diversamente. Se un giorno Vannacci dovesse farsi promotore di un “Normality pride day” avrà la mia adesione».

Come giudica la reazione al libro della politica?
«La reazione della sinistra, arcobaleno e non solo, è stata quella di gridare allo scandalo. Tutto assolutamente prevedibile e scontato. Invece mi hanno sorpreso i distinguo emersi nell’attuale compagine di governo. Non può infatti sfuggire a nessuno che molte delle posizioni sostenute dall’autore sono le stesse di Fratelli d’Italia, Lega e di cui si trova traccia anche nel libro della premier Meloni Io sono Giorgia, che pure ho letto ed apprezzato».

Senza mai citare Vannacci, pure il presidente Mattarella ha stigmatizzato i contenuti del libro. Cosa ne pensa?
«La mia impressione, in questa come in altre plurime circostanze, è che il presidente Mattarella sia piuttosto incline al “politicamente corretto” e alquanto allergico ad ogni pensiero difforme dal suo modo di vedere e interpretare le cose».
Per aver parlato chiaro in Kosovo lei è stato silurato.

Cosa è successo?
«Agli inizi del 2000, quando ero vicecomandante di Kfor (il contingente Nato, ndr), sono incorso in dinamiche non molto diverse da quelle attraversate dal collega Vannacci. Per avere affermato che dietro al meritorio impegno dei nostri militari non si avvertiva il supporto del “sistema Paese” e per aver rivolto ad alcuni contingenti di diversa nazionalità critiche in merito al loro modo di fare e alla cura dei propri specifici interessi, sono stato rimosso con immediatezza dal mio incarico. A volere la mia testa era stato, come ho scoperto molti anni dopo, l’allora ministro della Difesa Sergio Mattarella. Quello che avevo da dire a riguardo l’ho scritto nel mio libro Una vita con il Cappello Alpino, edito da Aviani, pubblicato dopo oltre 10 anni dal congedo».

Cosa aveva da dire?
«Mattarella riferì in Parlamento che si era trattato di una decisione autonoma dei vertici militari, cosa di cui ho fondati motivi di dubitare. Il Capo di Stato maggiore, generale Mario Arpino, che fu incaricato ufficialmente di comunicarmi la destituzione, in realtà il 6 aprile 2000 mi scrisse privatamente una lettera con la quale si complimentava per come mi ero comportato e mi additava ad esempio. Ritengo pertanto che la decisione l’abbia subita e non promossa».

Vannacci si è messo a rapporto dal ministro della Difesa. Come giudica l’atteggiamento di Crosetto?
«Il ministro si è detto disposto ad ascoltarlo. Mi sembra corretto. A deludermi, invece, è stata la reazione “a caldo” di Crosetto, che di fatto ha dato seguito a quanto chiesto dalle forze d’opposizione alienandosi parte della mia precedente stima e, temo, di parecchi elettori dell’attuale governo».

Dopo il caso Vannacci l’Esercito ha annullato, con una scusa, la festa del Col Moschin, il reggimento degli incursori. Poi Crosetto è intervenuto. I vertici militari sono succubi del politicamente corretto?
«Se Crosetto è intervenuto per far rispettare la tradizione mi fa piacere. Il fatto comunque dimostra una certa sudditanza di taluni vertici militari che, usi “ubidir tacendo” ma anche inclini a prendere posizione per salvaguardare, se non la poltrona, quantomeno il loro quieto vivere, talvolta addirittura anticipano e travalicano la volontà politica».

Se Vannacci decidesse di scendere in politica avrebbe un seguito anche fra i militari?
«La nostra società sta soffrendo per quella che Vittorio Sgarbi ha recentemente chiamato “la dittatura della diversità” e che il filosofo francese Jean Francois Braunstein ha tratteggiato nel suo libro La religion woke. Si tratta di una “moda” che, nata negli Stati Uniti ed abbracciata acriticamente dalle frange più progressiste del Vecchio Continente, sta sovvertendo la storia, i valori, la cultura e le tradizioni del mondo occidentale.
Un modo di vedere le cose che per la sua pervicace invasività sta iniziando a stancare tutti coloro che la pensano diversamente e, fortunatamente, a provocare reazioni in senso opposto. L’accento deve essere posto sulla parola “anche” della domanda. Credo che a dare credito a Vannacci, in caso di coerente discesa in politica, saranno molti italiani».
[continua]

video
07 aprile 2020 | Tg5 | reportage
Parla il sopravvissuto al virus
Fausto Biloslavo TRIESTE - Il sopravvissuto sta sbucciando un’arancia seduto sul letto di ospedale, come se non fosse rispuntato da poco dall’anticamera dell’inferno. Maglietta grigia, speranza dipinta negli occhi, Giovanni Ziliani è stato dimesso mercoledì, per tornare a casa. Quarantadue anni, atleta e istruttore di arti marziali ai bambini, il 10 marzo ha iniziato a stare male nella sua città, Cremona. Cinque giorni dopo è finito in terapia intensiva. Dalla Lombardia l’hanno trasferito a Trieste, dove un tubo in gola gli pompava aria nei polmoni devastati dall’infezione. Dopo 17 giorni di calvario è tornato a vivere, non più contagioso. Cosa ricorda di questa discesa all’inferno? “Non volevo dormire perchè avevo paura di smettere di respirare. Ricordo il tubo in gola, come dovevo convivere con il dolore, gli sforzi di vomito ogni volta che cercavo di deglutire. E gli occhi arrossati che bruciavano. Quando mi sono svegliato, ancora intubato, ero spaventato, disorientato. La sensazione è di impotenza sul proprio corpo. Ti rendi conto che dipendi da fili, tubi, macchine. E che la cosa più naturale del mondo, respirare, non lo è più”. Dove ha trovato la forza? “Mi sono aggrappato alla famiglia, ai valori veri. Al ricordo di mia moglie, in cinta da otto mesi e di nostra figlia di 7 anni. Ti aggrappi a quello che conta nella vita. E poi c’erano gli angeli in tuta bianca che mi hanno fatto rinascere”. Gli operatori sanitari dell’ospedale? “Sì, medici ed infermieri che ti aiutano e confortano in ogni modo. Volevo comunicare, ma non ci riuscivo perchè avevo un tubo in gola. Hanno provato a farmi scrivere, ma ero talmente debole che non ero in grado. Allora mi hanno portato un foglio plastificato con l’alfabeto e digitavo le lettere per comporre le parole”. Il momento che non dimenticherà mai? “Quando mi hanno estubato. E’ stata una festa. E quando ero in grado di parlare la prima cosa che hanno fatto è una chiamata in viva voce con mia moglie. Dopo tanti giorni fra la vita e la morte è stato un momento bellissimo”. Come ha recuperato le forze? “Sono stato svezzato come si fa con i vitellini. Dopo tanto tempo con il sondino per l’alimentazione mi hanno somministrato in bocca del tè caldo con una piccola siringa. Non ero solo un paziente che dovevano curare. Mi sono sentito accudito”. Come è stato infettato? “Abbiamo preso il virus da papà, che purtroppo non ce l’ha fatta. Mio fratello è intubato a Varese non ancora fuori pericolo”. E la sua famiglia? “Moglie e figlia di 7 anni per fortuna sono negative. La mia signora è in attesa di Gabriele che nascerà fra un mese. Ed io sono rinato a Trieste”. Ha pensato di non farcela? “Ero stanco di stare male con la febbre sempre a 39,6. Speravo di addormentarmi in terapia intensiva e di risvegliarmi guarito. Non è andata proprio in questo modo, ma è finita così: una vittoria per tutti”.

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21 settembre 2012 | La Vita in Diretta | reportage
Islam in Italia e non solo. Preconcetti, paure e pericoli


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16 marzo 2012 | Terra! | reportage
Feriti d'Italia
Fausto Biloslavo racconta le storie di alcuni soldati italiani feriti nel corso delle guerre in Afghanistan e Iraq. Realizzato per il programma "Terra" (Canale 5).

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radio

03 gennaio 2011 | Radio Capodistria - Storie di bipedi | intervento
Italia
Gli occhi della guerra
Le orbite rossastre di un bambino soldato, lo sguardo terrorizzato di un prigioniero che attende il plotone di esecuzione, l’ultimo rigagnolo di vita nelle pupille di un ferito sono gli occhi della guerra incrociati in tanti reportage di prima linea. Dopo l’esposizione in una dozzina di città la mostra fotografica “Gli occhi della guerra” è stata inaugurata a Trieste. Una collezione di immagini forti scattate in 25 anni di reportage da Fausto Biloslavo, Gian Micalessin e Almerigo Grilz, ucciso il 19 maggio 1987 in Mozambico, mentre filmava uno scontro a fuoco. La mostra, che rimarrà aperta al pubblico fino al 20 gennaio, è organizzata dall’associazione Hobbit e finanziata dalla regione Friuli-Venezia Giulia. L’esposizione è dedicata a Grilz e a tutti i giornalisti caduti in prima linea. Il prossimo marzo verrà ospitata a Bruxelles presso il parlamento europeo.Della storia dell'Albatross press agency,della mostra e del libro fotografico Gli occhi della guerra ne parlo a Radio Capodistria con Andro Merkù.

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03 giugno 2019 | Radio Scarp | intervento
Italia
Professione Reporter di Guerra


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20 giugno 2017 | WDR | intervento
Italia
Più cittadini italiani con lo ius soli
Estendere la cittadinanza italiana ai bambini figli di stranieri? È la proposta di legge in discussione in Senato in questi giorni. Abbiamo sentito favorevoli e contrari.

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24 maggio 2010 | Radio Padania Libera | intervento
Italia
Proselitismo islamico dietro le sbarre
“Penso che sia giusto se alcuni musulmani combattono la guerra santa contro gli americani in paesi che non sono la loro terra”. Dopo un lungo girarci attorno Kamel Adid sorprende un po’ tutti, quando sputa il rospo. La domanda riguardava i mujaheddin, i musulmani pronti a morire per Allah, contro l’invasore infedele. Tre soldati della guerra santa, arrivati un paio di mesi fa da Guantanamo, sono rinchiusi poco più in là, nel reparto di massima sicurezza del carcere di Opera, alle porte di Milano.
Adid è un giovane marocchino di 31 anni con barbetta islamica d’ordinanza e tunica color noce. Nel carcere modello di Opera fa l’imam dei 44 musulmani detenuti, che frequentano una grande sala adibita a moschea. Un predicatore fai da te, che di solito parla un linguaggio moderato e ti guarda con occhioni apparentemente timidi.
Deve scontare ancora due mesi di pena per un reato legato alla droga e da pochi giorni è stato trasferito in un altro istituto. “Quelli che si fanno saltare in aria subiscono il lavaggio del cervello – si affretta a spiegare l’autonominato imam – Noi abbiamo riscoperto la fede in carcere. Pregare ci da conforto, ci aiuta ad avere speranza”.

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25 maggio 2010 | Spazio Radio - Radio 1 | intervento
Italia
L'Islam nelle carceri italiane
In Italia su oltre 23mila detenuti stranieri, 9840 risultano musulmani, secondo i dati ufficiali. Almeno seimila, però, non si sono dichiarati. Il rapporto di 364 pagine, “La radicalizzazione jihadista nelle istituzioni penitenziarie europee”, realizzato dall’esperto di Islam nella carceri, Sergio Bianchi, ne indica 13mila.
In Italia ci sono circa 80 islamici dietro le sbarre per reati connessi al terrorismo. Dal 2009 li hanno concentrati in quattro istituti di pena: ad Asti, Macomer, Benevento e Rossano. Nel carcere di Opera, invece, sono arrivati Adel Ben Mabrouk, Nasri Riadh e Moez Abdel Qader Fezzani, ex prigionieri di Guantanamo. Chi li controlla ogni giorno racconta che parlano in italiano. La guerra santa in Afghanistan l’hanno abbracciata dopo aver vissuto come extracomunicatori nel nostro paese. Non si possono incontrare fra loro e vivono in celle singole. Pregano regolarmente con molta devozione e hanno mantenuto i barboni islamici.

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