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Esclusivo
18 dicembre 2008 - Esteri - Kosovo - Panorama
La verità nascosta: i massacri dei serbi
kosovo La verità nascosta: i massacri di serbi

FAUSTO BILOSLAVO

esclusivo Lager segreti dell’Uçk in Albania, teste mozzate e raccapriccianti indizi di un traffico di organi espiantati ai prigionieri... A quasi 10 anni dall’inizio della guerra, viene alla luce la contropulizia etnica degli albanesi. Panorama pubblica le prove: le fotografie delle esecuzioni scattate da soldati italiani.



Immagini mai viste di soldati italiani che recuperano i cadaveri dei serbi massacrati in Kosovo. Rivelazioni sui campi di prigionia segreti, in Albania, dei guerriglieri indipendentisti dell’Uçk. Con l’orribile sospetto che ad alcuni detenuti siano stati prelevati gli organi per venderli sul mercato dei trapianti. L’altra faccia dei crimini di guerra nell’ex Iugoslavia, con i serbi che, da carnefici, diventano vittime della pulizia etnica. Panorama pubblica in esclusiva le fotografie dei soldati italiani entrati in Kosovo nel giugno ’99, dopo i bombardamenti della Nato, che portano via i cadaveri delle esecuzioni di cui si sono macchiati gli albanesi.

«Si sentiva l’odore della morte, chilometro dopo chilometro. Abbiamo trovato le fosse comuni dei kosovari trucidati dai serbi, ma la guerra non era finita come speravamo» racconta l’allora generale Mauro Del Vecchio, oggi senatore del centrosinistra. Nel ’99 comandava 7 mila uomini, a cominciare dagli italiani, fra i primi a entrare in Kosovo. «Ogni mattina nei primi 15-20 giorni mi informavano del ritrovamento dei corpi di serbi e rom abbandonati per strada. Poi gli omicidi sono continuati, ma in maniera saltuaria. Chi non era fuggito rischiava la morte o il rapimento» racconta Del Vecchio. «Le case abbandonate dai serbi venivano rase al suolo o incendiate. E gli albanesi si accanivano anche contro chiese e monasteri. L’obiettivo era annullare ogni forma di presenza serba».

Nel ’99 per i militari italiani l’altra faccia della medaglia della guerra in Kosovo era un tabù da non raccontare ai giornalisti. Le fotografie scattate dai soldati, che fanno i becchini delle vittime degli albanesi, vengono secretate. In un’immagine si vede una giovane donna vestita di nero con il volto coperto di sangue e un foro di proiettile sul petto. Un’esecuzione, con il corpo abbandonato in una strada di campagna e poi coperto pietosamente da un telo mimetico italiano.

In un’altra foto si nota un uomo con i capelli bianchi, a torso nudo, riverso sul greto di un fiume. E ancora i soldati che trasportano un sacco di plastica con dentro un cadavere. «Quelle nelle foto sono vittime serbe» ricorda Del Vecchio. «Nessuno raccoglieva i loro corpi, che venivano abbandonati nei posti più impensati. Come a Djakovica, dove in un’industria abbiamo trovato vittime rom».

Responsabili degli eccidi sono i guerriglieri dell’Uçk, l’esercito di liberazione del Kosovo. Oggi disciolto, sebbene molti dei suoi membri facciano parte delle nuove forze di sicurezza del paese da poco indipendente. «Ricevevamo suppliche di madri e mogli serbe che denunciavano il rapimento di figli e mariti. Talvolta venivano ritrovati morti. In altri casi non sono più tornati» spiega Del Vecchio.

Dalle liste dell’Onu nel 2007 mancavano all’appello in Kosovo 2.180 persone. Ufficialmente i serbi scomparsi nel nulla risultano 723, ma a Belgrado sostengono che sono circa il doppio. Solo 290 corpi sarebbero stati riesumati e sepolti.

Annotazione inquietante: il 70 per cento dei serbi è scomparso dopo il giugno ’99. Veterano delle fosse comuni di Srebrenica, in Bosnia, il peruviano Pablo José Baraybar ha guidato l’Ufficio persone scomparse del protettorato Onu a Pristina (Unmik), dal 2002 al 2007. Fra i 300 e 400 serbi, rom e «collaborazionisti» di Belgrado sarebbero stati fatti prigionieri in Kosovo dall’Uçk e trasferiti in Albania in centri di detenzione segreti. «È certo che dei serbi sono stati portati oltreconfine, anche se non sappiamo con precisione quanti. Uno dei campi era a Kukes» conferma l’ex funzionario Onu. «Un albanese, pure lui preso e portato a Kukes con il fratello nel ’98, mi ha raccontato di avere visto dei prigionieri serbi» rivela Baraybar, ora tornato in Sud America. Il sopravvissuto viene rilasciato nel ’99, dopo l’arrivo delle truppe Nato, perché il padre paga un riscatto. Del fratello torna solo il cadavere. «Il testimone mi ha confermato il passaggio per il campo di Kukes di vari comandanti Uçk, compreso Agim Ceku» rivela Baraybar.

Ceku era capo di stato maggiore dell’esercito guerrigliero e premier del Kosovo fino al gennaio 2008. Dei serbi detenuti in Albania nessuno è tornato a casa. «Abbiamo ricevuto informazioni che nella vicina località di Bicaj potrebbero essere sepolte alcune persone che erano rinchiuse nel campo di Kukes» denuncia l’ex funzionario dell’Onu.

Altri testimoni gli raccontano una storia ancora più agghiacciante. Nel giugno ’99 a Prizren, Kosovo occidentale, furono prelevate persone (non solo serbe) poi trasferite in Albania. «Alla frontiera c’erano i soldati tedeschi della Nato. Facevano ciao ciao ai camion che passavano» dice Baraybar, in base a informazioni ricevute da un autista e dalla manovalanza legata all’Uçk, che si occupava dei trasporti forzati.

Alcuni prigionieri furono portati a sud-ovest di Kukes, nei pressi di Burrel, in una «casa gialla» dove una delle stanze era stata trasformata in «camera operatoria di fortuna. E qui i chirurghi espiantavano gli organi dei prigionieri». L’affermazione è contenuta nel libro La caccia di Carla Del Ponte, ex procuratore capo del tribunale internazionale per i crimini di guerra nell’ex Iugoslavia con sede all’Aia. Gli organi «venivano inviati attraverso l’aeroporto di Rinas, presso Tirana, a cliniche chirurgiche all’estero per essere impiantati in pazienti paganti. Uno degli informatori aveva effettuato personalmente una di queste consegne» sostiene il libro, uscito in aprile.

Le affermazioni fanno scalpore, ma pochi sanno che il 4 febbraio 2004 Baraybar eseguì un sopralluogo nella famigerata «casa gialla». In un rapporto di 10 pagine scrive di non «aver trovato prove conclusive», ma di aver riscontrato tracce di sangue «in cucina e in una stanza-magazzino». Gli esperti Onu hanno anche trovato siringhe, farmaci per il rilassamento muscolare e frammenti di materiale chirurgico. La famiglia Katuchi, che vive nell’isolata abitazione di due piani, nega: il sangue sarebbe di galline sgozzate per fare il brodo o di una partoriente. «Storie ridicole, che non stanno in piedi. Hanno mentito anche sul colore della casa: ho una foto che dimostra che era proprio gialla, prima che la dipingessero di bianco» spiega Baraybar. «Gli indizi che abbiamo trovato erano consistenti. Non andavano sottovalutati ed erano sufficienti per aprire una vera inchiesta». Invece il tribunale dell’Aia si blocca. Ora il caso è stato riaperto dal parlamentare svizzero Dick Marty incaricato delle indagini dal Consiglio d’Europa. Il rapporto di Baraybar è rimasto per anni lettera morta, mentre in Kosovo sono venuti alla luce i corpi di altri serbi scomparsi.

Nella foiba di Volujak, a 50 chilometri da Pristina, sono stati trovati 26 civili serbi fatti prigionieri dall’Uçk nel luglio ’98, quando i guerriglieri avevano scatenato un’offensiva contro la città di Orahovac-Rahovec. Le donne erano state rilasciate. Gli uomini, compresi dei ragazzini, non sono più tornati. Un gruppo è stato portato sull’orlo della foiba con i polsi legati dal filo di ferro. I più fortunati sono morti subito, con un colpo di pistola alla nuca, e gettati nel vuoto. Prima dell’esecuzione erano stati portati nella stazione di polizia di Malisevo occupata dai guerriglieri. Una prigioniera che è poi stata minacciata aveva visto arrivare alcuni ufficiali dell’Uçk. Fra questi Jakup Krasniqi, in divisa nera. «L’ha sentito distintamente ordinare: ammazzateli tutti» ricorda Baraybar, riferendosi agli atti dell’Aia.

Atti del tutto ignorati: Krasniqi è l’attuale presidente del parlamento kosovaro. Nel 2005 Baraybar ha scoperto la foiba di Volujak e identificato le vittime. Sui resti ha trovato i fori delle pallottole e le cartucce dell’esecuzione. «Quando avevamo tutto (vittime, prove, testimoni), il tribunale dell’Aia ci ha detto che era troppo tardi» informa. «Non potevano aprire più nuove inchieste perché chiudono nel 2010 e il sistema legale in Kosovo non era interessato al caso».

Nel 2003 la polizia Onu ha trovato nella zona di Decani orribili foto ricordo, che Panorama ha deciso di non pubblicare per la loro brutalità. Le immagini ritraggono un gruppo di miliziani dell’Uçk, armati e in divisa, che esibiscono la testa di un riservista serbo decapitato. I guerriglieri sorridono beffardi e si fanno poi immortalare mentre infilano almeno due teste in un sacco: il giornale serbo Vecernje Novosti ha identificato carnefici e vittime. Quando le foto furono scattate, durante la guerra, l’area era controllata da Ramush Haradinaj, celebre comandante Uçk poi divenuto premier. Ad aprile l’Aia ha fatto cadere le accuse di crimini di guerra nei suoi confronti. I testimoni che lo inchiodavano sono morti in strani incidenti o sono stati pesantemente minacciati, come ammette la stessa corte internazionale.

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16 dicembre 2010 | RaiRadio | intervento
Kosovo
La faccia sporca della guerra in Kosovo
Quando organizzava la guerriglia indipendentista fra i monti dell’Albania lo chiamavano “il serpente”, per la freddezza ed i modi spietati. Oggi che è primo ministro del Kosovo un rapporto del Consiglio d’Europa lo accusa di essere il capo di una potente mafia coinvolta nel traffico di droga, armi e di organi strappati ai prigionieri serbi. Hashim Thaqi respinge con sdegno le accuse, ma questa volta lo inchioderebbero testimonianze, rapporti di intelligence e notizie raccolte dall’Fbi. Comprese le relazioni del Sismi, il nostro servizio segreto, che nel 1999, indicava il futuro premier “come uno dei boss criminali più pericolosi dell’Esercito di liberazione del Kosovo”.

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