image
Intervista esclusiva
09 febbraio 2017 - Prima - Italia - Il Giornale
L’orrore è lavare la tuta di chi si calava nella foiba piena di corpi
Fausto Biloslavo
«L\\\'orrore ricordo l\\\'orrore nei racconti dei miei compagni, che si infilavano nella foiba per recuperare i poveri corpi. Spesso per metterli nelle casse si smembravano. Le vittime italiane dei partigiani di Tito, in gran parte civili, avevano i polsi stretti dal filo di ferro. Ed erano stati legati uno all\\\'altro per gettarli nel buco ancora vivi sparando solo al primo, che faceva precipitare gli altri». Sembra che sia accaduto ieri nel lucido racconto di Giuseppe Comand, 97 anni. Nel 1943 ne aveva poco più di venti quando gli fu ordinato di aiutare i vigili del fuoco di Pola, che recuperavano gli infoibati nella prima ondata di rappresaglia titina grazie al vuoto di potere provocato dall\\\'8 settembre e dallo sbandamento dell\\\'esercito italiano. Comand, friulano doc, tira fuori il suo diario di quelle giornate terribili, che non ha mai pubblicato. Probabilmente è l\\\'ultimo testimone vivente della riesumazione dei primi infoibati italiani dell\\\'Istria, che poi sarebbero diventati migliaia alla fine della Seconda guerra mondiale in tutta la Venezia Giulia compresa Trieste. Soldato dell\\\'11° reggimento genio di Udine, durante la guerra, ha contattato il Giornale per raccontare come «tiravano fuori i morti». E l\\\'epopea dell\\\'8 settembre con il rischio di finire nelle mani dei partigiani di Tito o deportato in Germania dai tedeschi. Una testimonianza per non dimenticare la tragedia delle foibe, ma pure di una guerra senza pietà alla vigilia del Giorno del Ricordo degli istriani, fiumani e dalmati cacciati dalle loro terre da Tito.
Nel 1943 come venne a sapere delle prime foibe?
«Dopo l\\\'8 settembre la mia unità fu disarmata dai tedeschi a Pola. Il comandante riuscì a fare aggregare una squadra, compreso il sottoscritto, come prigionieri di guerra, ai vigili del fuoco locali, che dovevano recuperare i corpi. Non sapevo neppure cosa fosse una foiba. Quando a Pisino mi dissero che si trattava di profonde cavità piene di morti italiani scaraventati dentro dai partigiani, mi sembrò di impazzire. Io non mi calo nella foiba, piuttosto sparatemi. Non me la sento di fare il becchino di questi poveri disgraziati».
E cosa accadde?
«Ero il più giovane a soli 23 anni e mi esentarono dall\\\'infilarmi nella foiba, ma i miei compagni dovettero farlo e mi raccontarono l\\\'orrore. Oggi, purtroppo, non ci sono più. Il primo a calarsi dentro la foiba di Vines, vicino ad Albona, fu Arnaldo Harzarich, maresciallo dei vigili del fuoco di Pola. All\\\'imbocco venne costruita una struttura in legno per la carrucola e lo calarono con una specie di seggiolino da giostra».
Cosa trovarono nella foiba?
«I primi morti, sette se non ricordo male, si erano fermati ad uno sbalzo di roccia a circa 70 metri di profondità. Le altre decine precipitarono fino sul fondo per circa 120 metri (72 italiani comprese 6 donne e 12 militari tedeschi, nda). Il maresciallo raccontava che era terrificante e sembrava di calarsi all\\\'inferno. L\\\'odore della putrefazione era così forte che si sentiva a chilometri di distanza. Il problema era recuperare i corpi straziati tenendoli il più possibile intatti. Nella foiba calavano le casse da morto in legno, ma i cadaveri si frantumavano e non era facile riportarli in superficie».
Una riesumazione fu più terribile delle altre.
«Il fatto più raccapricciante capitò ad Harzarich (nella cavità di villa Surani, nda). Con il raggio della pila illuminò il corpo di una ragazza seminuda, che sembrava seduta sul fondo della foiba con la schiena appoggiata alla parete e la testa rivolta verso l\\\'alto, come se sorridesse. Si trattava di Norma Cossetto, la studentessa istriana, torturata e violentata dai partigiani prima di venire infoibata».
Le vittime come venivano scaraventate nell\\\'abisso?
«La gente del posto e soprattutto le due ragazze che ci facevano da mangiare mi raccontarono i dettagli del calvario degli italiani, compresi due loro fratelli infoibati. Nel caos dell\\\'8 settembre il castello di Pisino, nel centro dell\\\'Istria fu usato come prigione, dove le vittime italiane venivano sommariamente processate dai partigiani comunisti e condannate a morte. A molti disgraziati, prima di venire infoibati, legavano gli avambracci con del filo di ferro ruggine stretto fino all\\\'osso grazie a pinze e tenaglie. Poi li costringevano a salire su una corriera rossa che li portava davanti alla foiba. Sembra che sparassero solo al primo per far precipitare gli altri ancora vivi. Il macabro rito si chiudeva con il lancio di un cane sopra i corpi per una superstizione slava sui morti».
Chi erano gli infoibati?
«Italiani soprattutto civili e militari (anche tedeschi, nda) fatti prigionieri. Nella foiba di Vines venne trovata pure l\\\'ostetrica di Albona. Sembra che molti anni prima fosse morto un nascituro ed il padre si è vendicato».
Come furono riconosciuti i cadaveri?
«L\\\'odore terribile attirò dopo pochi giorni i familiari, che trovarono la famosa foiba di Vines. I miei compagni si calarono con delle tute in gomma di Marina, guanti fino al gomito e autorespiratori con le bombole sulla schiena. Si poteva resistere appena 30 minuti. Prima di iniziare l\\\'operazione li costringevano a bere diversi sorsi di cognac per sopportare l\\\'orrore. I corpi riesumati venivano allineati sul prato ed i parenti turandosi naso e bocca con i fazzoletti, per l\\\'odore terribile della putrefazione, cercavano di riconoscere il congiunto fra scene strazianti di dolore e pianto. I volti erano quasi sempre consumati, ma il riconoscimento avveniva grazie ai denti, i resti dei vestiti o un pettinino».
Lei cosa faceva?
«Recuperavo altri cadaveri sotto le macerie soprattutto a Pisino e alla sera lavavo le tute di chi si calava nelle foibe. Non me lo dimenticherò mai».
L\\\'odissea è iniziata l\\\'8 settembre 1943?
«Sinceramente non me ne importava nulla della guerra. Come perito agrario mi avevano assegnato a mansioni d\\\'ufficio alla base del genio vicino a Fiume, oggi la croata Rijeka. L\\\' 8 settembre uno dei commilitoni si mise a gridare: Una grande notizia, la guerra è finita. Subito dopo andai al comando e dietro la scrivania del colonnello era seduto il capo dei partigiani, il figlio di Marco, l\\\'oste del paese. Mi offrì di scappare con abiti borghesi, ma gli dissi che non potevo tradire i miei compagni».
Il reparto cosa fece?
«Armi in pugno ci dirigemmo verso Pola cercando di evitare i tedeschi. Ad un certo punto il mio camion si guastò ed i partigiani ci circondarono. Uno mi puntò il fucile a distanza ravvicinata ed io la pistola alla pancia dicendogli: Se spari lo faccio pure io. Alla fine riuscimmo a proseguire».
Per poi finire nelle mani dei tedeschi...
«A Pola ci intimarono di consegnare le armi e di levare le stellette. Al momento della resa un capitano impugnò la pistola. Gli gridai no, non lo faccia. Lui rispose: Non posso assistere a quello che accadrà. E si sparò. Tanti soldati furono deportati in Germania, ma la mia squadra finì a riesumare le vittime dei partigiani. Nel novembre 1943, grazie a documenti falsi, tornai a casa, ma non ho mai dimenticato le prime foibe».
[continua]

video
10 giugno 2008 | TG3 regionale | reportage
Gli occhi della guerra.... a Bolzano /1
Il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, non dimentica i vecchi amici scomparsi. Il 10 giugno ha visitato a Bolzano la mostra fotografica “Gli occhi della guerra” dedicata ad Almerigo Grilz. La mostra è stata organizzata dal 4° Reggimento alpini paracadutisti. Gli ho illustrato le immagini forti raccolte in 25 anni di reportage assieme ad Almerigo e Gian Micalessin. La Russa ha ricordato quando "sono andato a prendere Fausto e Almerigo al ritorno da uno dei primi reportage con la mia vecchia 500 in stazione a Milano. Poco dopo li hanno ricoverati tutti e due per qualche malattia". Era il 1983, il primo reportage in Afghanistan e avevamo beccato l'epatite mangiando la misera sbobba dei mujaheddin, che combattevano contro le truppe sovietiche.

play
14 maggio 2020 | Tg5 | reportage
Trieste, Lampedusa del Nord Est
Fausto Biloslavo TRIESTE - Il gruppetto è seduto sul bordo della strada asfaltata. Tutti maschi dai vent’anni in su, laceri, sporchi e inzuppati di pioggia sembrano sfiniti, ma chiedono subito “dov’è Trieste?”. Un chilometro più indietro passa il confine con la Slovenia. I migranti illegali sono appena arrivati, dopo giorni di marcia lungo la rotta balcanica. Non sembra il Carso triestino, ma la Bosnia nord occidentale da dove partono per arrivare a piedi in Italia. Scarpe di ginnastica, tute e qualche piumino non hanno neanche uno zainetto. Il più giovane è il capetto della decina di afghani, che abbiamo intercettato prima della polizia. Uno indossa una divisa mimetica probabilmente bosniaca, un altro ha un barbone e sguardo da talebano e la principale preoccupazione è “di non venire deportati” ovvero rimandati indietro. Non sanno che la Slovenia, causa virus, ha sospeso i respingimenti dall’Italia. Di nuovo in marcia i migranti tirano un sospiro di sollievo quando vedono un cartello stradale che indica Trieste. Il capetto alza la mano in segno di vittoria urlando da dove viene: “Afghanistan, Baghlan”, una provincia a nord di Kabul. Il 12 maggio sono arrivati in 160 in poche ore, in gran parte afghani e pachistani, il picco giornaliero dall’inizio dell’anno. La riapertura della rotta balcanica sul fronte del Nord Est è iniziata a fine aprile, in vista della fase 2 dell’emergenza virus. A Trieste sono stati rintracciati una media di 40 migranti al giorno. In Bosnia sarebbero in 7500 pronti a partire verso l’Italia. Il gruppetto di afghani viene preso in carico dai militari del reggimento Piemonte Cavalleria schierato sul confine con un centinaio di uomini per l’emergenza virus. Più avanti sullo stradone di ingresso in città, da dove si vede il capoluogo giuliano, la polizia sta intercettando altri migranti. Le volanti con il lampeggiante acceso “scortano” la colonna che si sta ingrossando con decine di giovani stanchi e affamati. Grazie ad un altoparlante viene spiegato in inglese di stare calmi e dirigersi verso il punto di raccolta sul ciglio della strada in attesa degli autobus per portarli via. Gli agenti con le mascherine controllano per prima cosa con i termometri a distanza la temperatura dei clandestini. Poi li perquisiscono uno ad uno e alla fine distribuiscono le mascherine ai migranti. Alla fine li fanno salire sugli autobus dell’azienda comunale dei trasporti cercando di non riempirli troppo per evitare focolai di contagio. “No virus, no virus” sostiene Rahibullah Sadiqi alzando i pollici verso l’alto in segno di vittoria. L’afghano è partito un anno fa dal suo paese e ha camminato per “dodici giorni dalla Bosnia, attraverso la Croazia e la Slovenia fino all’Italia”. Seduto per terra si è levato le scarpe e mostra i piedi doloranti. “I croati mi hanno rimandato indietro nove volte, ma adesso non c’era polizia e siamo passati tutti” spiega sorridendo dopo aver concluso “il gioco”, come i clandestini chiamano l’ultimo tratto della rotta balcanica. “Abbiamo registrato un crollo degli arrivi in marzo e per gran parte di aprile. Poi un’impennata alla fine dello scorso mese fino a metà maggio. L’impressione è che per i paesi della rotta balcanica nello stesso periodo sia avvenuta la fine del lockdown migratorio. In pratica hanno aperto i rubinetti per scaricare il peso dei flussi sull’Italia e sul Friuli-Venezia Giulia in particolare creando una situazione ingestibile anche dal punto di vista sanitario. E’ inaccettabile” spiega l'assessore regionale alla Sicurezza Pierpaolo Roberti, che punta il dito contro la Slovenia. Lorenzo Tamaro, responsabile provinciale del Sindacato autonomo di polizia, denuncia “la carenza d’organico davanti all’emergenza dell’arrivo in massa di immigrati clandestini. Rinnoviamo l’appello per l’invio di uomini in rinforzo alla Polizia di frontiera”. In aprile circa il 30% dei migranti che stazionavano in Serbia è entrato in Bosnia grazie alla crisi pandemica, che ha distolto uomini ed energie dal controllo dei confini. Nella Bosnia occidentale non ci sono più i campi di raccolta, ma i migranti bivaccano nei boschi e passano più facilmente in Croazia dove la polizia ha dovuto gestire l’emergenza virus e pure un terremoto. Sul Carso anche l’esercito impegnato nell’operazione Strade sicure fa il possibile per tamponare l’arrivo dei migranti intercettai pure con i droni. A Fernetti sul valico con la Slovenia hanno montato un grosso tendone mimetico dove vengono portati i nuovi arrivati per i controlli sanitari. Il personale del 118 entra con le protezioni anti virus proprio per controllare che nessuno mostri i sintomi, come febbre e tosse, di un possibile contagio. Il Sap è preoccupato per l’emergenza sanitaria: “Non abbiamo strutture idonee ad accogliere un numero così elevato di persone. Servono più ambienti per poter isolare “casi sospetti” e non mettere a rischio contagio gli operatori di Polizia. Non siamo nemmeno adeguatamente muniti di mezzi per il trasporto dei migranti con le separazioni previste dall’emergenza virus”. Gli agenti impegnati sul terreno non sono autorizzati a parlare, ma a denti stretti ammettono: “Se va avanti così, in vista della bella stagione, la rotta balcanica rischia di esplodere. Saremo travolti dai migranti”. E Trieste potrebbe trasformarsi nella Lampedusa del Nord Est.

play
18 ottobre 2010 | La vita in diretta - Raiuno | reportage
L'Islam nelle carceri
Sono circa 10mila i detenuti musulmani nelle carceri italiane. Soprattutto marocchini, tunisini algerini, ma non manca qualche afghano o iracheno. Nella stragrande maggioranza delinquenti comuni che si aggrappano alla fede per sopravvivere dietro le sbarre. Ma il pericolo del radicalismo islamico è sempre in agguato. Circa 80 detenuti musulmani con reati di terrorismo sono stati concentrati in quattro carceri: Macomer, Asti, Benevento e Rossano. Queste immagini esclusive mostrano la preghiera verso la Mecca nella sezione di Alta sicurezza 2 del carcere sardo di Macomer. Dove sono isolati personaggi come il convertito francese Raphael Gendron arrestato a Bari nel 2008 e Adel Ben Mabrouk uno dei tre tunisini catturati in Afghanistan, internati a Guantanamo e mandati in Italia dalla Casa Bianca. “Ci insultano per provocare lo scontro dandoci dei fascisti, razzisti, servi degli americani. Una volta hanno esultato urlando Allah o Akbar, quando dei soldati italiani sono morti in un attentato in Afghanistan” denunciano gli agenti della polizia penitenziaria. Nel carcere penale di Padova sono un centinaio i detenuti comuni musulmani che seguono le regole islamiche guidati dall’Imam fai da te Enhaji Abderrahman Fra i detenuti comuni non mancano storie drammatiche di guerra come quella di un giovane iracheno raccontata dall’educatrice del carcere Cinzia Sattin, che ha l’incubo di saltare in aria come la sua famiglia a causa di un attacco suicida. L’amministrazione penitenziaria mette a disposizione degli spazi per la preghiera e fornisce il vitto halal, secondo le regole musulmane. La fede nell’Islam serve a sopportare la detenzione. Molti condannano il terrorismo, ma c’è anche dell’altro....

play
[altri video]
radio

20 giugno 2017 | WDR | intervento
Italia
Più cittadini italiani con lo ius soli
Estendere la cittadinanza italiana ai bambini figli di stranieri? È la proposta di legge in discussione in Senato in questi giorni. Abbiamo sentito favorevoli e contrari.

play

[altri collegamenti radio]




fotografie







[altre foto]